Quando gli inglesi detenevano il potere in India, ne erano le guide e facevano ben poca attenzione alla sensibilità degli Hindù. Portarono le loro costumanze dall'Inghilterra, come sovente facevano con i loro mobili. E gli Hindù con i quali si allearono - se pur successe mai - si adoperavano a conformarsi alla etichetta occidentale. Il famoso "Passaggio in India", di E.M. Foster, è considerato un capolavoro; mostra con ironia il lato ridicolo, il modo di agire delle classi superiori britanniche, trapiantate in questa paese caldo, tropicale, e gli sforzi di certi Hindù per adattarvisi.
In quanto indigeni e subalterni, gli Hindù che si recavano in occidente dovevano seguire le abitudini occidentali, o, allora, venivano considerati come dei pagani. Questi fatti causarono loro, naturalmente, molte angoscie. Delle foto di Gandhi, scattate durante la sua frequenza alla vita universitaria, in Inghilterra, verso la fine del diciannovesimo secolo, mostrano la sua aria affettata, in giacchetta e cravatta.
Egli scrisse nella sua Autobiografia, o le mie esperienze di Verità a quale punto fu difficile per lui l'adattarsi ai costumi inglesi, il mangiare, il vestirsi, il farsi un bagno in una bagnarola. Nel 1931, quando ritornò in Inghilterra - stavolta per discutere con il governo dei futuri statuti del suo paese - Gandhi si sentì sufficientemente sicuro di sè per recarvisici vestito, come al suo solito, di un dhoti (abito della parte inferiore del corpo), manufatto nel suo paese d'origine, e di un chadar (soprabito, tipo scialle).
Ricordo con stupore l'oltraggio che questa sfida provocò all'epoca. Ci si attendeva che gli uomini di stato portassero, se non dei pantaloni rigati, almeno un completo decente.
Gli swami dell'ordine di Ramakrishna che si recarono in occidente, dopo Swami Vivekananda, per non offuscare la sensibilità occidentale arrivavano con dei vestiti, spesso confezionati in anticipo da sarti britannici in India. In cattedra, o sulla scena indossavano degli abiti che imitavano i modelli del clero dell'epoca: colletti bianchi da pastore, che spiccavano sulle loro vesti, e dei pantaloni neri. La sola distinzione del sannyasin (monaco hindù) che si permettevano di indossare era la guerrua, dal colore arancione tradizionale della veste di sannyasin e, nell'occasione, e in solo uno, o due casi, un turbante. Per quanto sia dato saperne, nessuno Swami, dopo Vivekananda, apparve in pubblico indossando gli abituali abiti dello sannyasin: guerrua, dhoti e chadar, sino alla comparsa di Swami Prabhavananda, nel 1940. Trovandosi, egli, ad Hollywood pensò di riuscire in codesta innovazione, mentre si rese anche conto che i tempi cambiavano. Nel 1956, quando vedemmo giungere dall'India Swami Vandanananda per il servizio di assistente alla Società Vedantica della California del Sud, gli chiedemmo di acquistare degli abiti occidentali manifatturati a Calcutta prima di partire, in modo da giungere a New York vestito in maniera conveniente. Di fatto, prima che lasciasse l'India sistemammo le cose in modo tale a che lo Swami si potesse recare presso un americano residente a Calcutta, per pranzare un paio di volte, sì che potesse abituarsi a manipolare forchetta e coltello, ed a conoscere altre abitudini occidentali.
Ma, esiste anche il rovescio della medaglia. Degli adepti occidedntali, visitando i luoghi santi dell'India, e ospiti presso i monasteri della Missione Ramakrishna ebbero delle umilianti esperienze mentre cercavano di capire e di seguire l'etichetta hindù. Il mio libro A Yankee and the Swami è il diario di un americano che si confronta con i costumi hindù. E' interessante indicare che questo libro divenne un manuale di insegnamento studiato dagli adepti occidentali che si trovavano in procinto di fare un pellegrinaggio in India. Fugacemente osserverei che durante l'epoca di cui parlo nel libro - gli inizi degli anni 1950 - gli Hindù in India erano più tolleranti a riguardo della goffaggine degli occidentali nel loro paesi di quanto non lo fossimo, da noi, verso le loro inettitudini sociali.
All'inizio del lavoro vedantico in Inghilterra ed in America, gli Swami stavano attenti a non insistere presso gli occidentali per imporre loro le costumanze sociali e religiose dell'India. Non ebbero mai l'intenzione di induizzare chiunque fosse. Fecero pochissimi sforzi per introdurre le pratiche religiose osservate in India dai fedeli e si comportarono in modo che i santuari e gli altari del Centro si trovassero in un ambiente privato distante da quelli pubblici aperti alla gente, che, facilmente, avrebbe frainteso quel che lì svolgeva. Solo nel 1936, quando venne terminato il tempio vedantico ad Hollywood, il santuario fu ufficializzato come facente parte dell'auditorium, e paragonato agli altari delle chiese cristiane; tuttavia, all'inizio, questi santuari restavano chiusi durante i servizi pubblici. Sino a quarant'anni fa, la cappella di Gretz rimase serrata a tutti coloro che non erano dei veri e propri adepti, poichè essi si sarebbero potuti sentire scossi dal suo carattere hindù.
Ora, le cose sono molto cambiate; si notano frequentemente degli orientali in occidente e non stupisce più il vederli indossare i loro abiti tradizionali e seguire le loro abitudini. Ciò deriva, probabilmente ed in parte, dal fatto che numerosi visitatori occidentali sono andati in India, hanno conosciuto i costumi orientali e vi ci sono abituati. L'esplosione hippie ed il movimento del giovane confronto degli anni '60 e dell'inizio del '70 confermano tale tendenza. Quei ragazzi decisero di adottare i valori morali di bontà, realismo e semplicità e proclamarono tutto ciò indossando ogni tipo di abito, assumendo un'attitudine che si disse naturale - a sfida di ciò che essi consideravano l'ipocrisia delle generazioni passate, il cui modo di essere sembrava loro nascondesse il manierismo e l'ingiustizia. Gli hippies hanno tratto l'ispirazione dal genere di vita che conobbero nel modo di comportasi della gente hindù.
Per l'adepto del Vedanta in occidente si è formato un codice di comportamento che conserva la nota del suo occidentalismo, ma conformemente allo spirito delle idee religiose hindù; un codice di etichetta che si è sviluppato in modo naturale, come risulato del suoi viaggi, dell'interesse verso lo yoga, della presenza degli swamis in occidente e di una progressiva ricerca degli occidentali rivolta al più grande comportamento religioso nella vita. Quel che noi chiamiamo discipline di ashram, che guidano ogni comportamento nei centri vedantici, è più il risultato delle iniziative di devoti che quello di un'impostazione da parte degli swamis della Missione Ramakrishna. La disciplina di un ashram è un amalgama di abitudini orientali ed occidentali. Le persone che vengono nei centri e negli ashrams vedantici si domandano, sovente, come e perchè tutto ciò funzioni. Ecco, quindi,le ragioni del presente articolo:" Come comportarsi in un ashram."
L'etichetta hindu parte dall'idea che il mondo visibile è, nè più e nè meno, che una massa di energie, o di qualità chiamate gunas. Esistono tre gunas, delle quali si potrebbe dire che esse rappresentano il bianco, il rosso e il nero; e che costruiscono, rispettivamente, l'interiorizzazione, o la virtù; la passione, o attività; e l'ignoranza, o inerzia. Il mondo - visto in ogni suo istante - è la totale somma di tutti questi gunas, nelle loro differenti manifestazioni e combinazioni. Nel santo, il guna della non-passione - o sattva - predomina. Nell'ambizioso, è l'attività - o rajas - che emerge. Nel pigro, o colui che prende tempo, si può dire che egli possieda in alto grado la qualità nera, o tamas.
Questi gunas sono contagiosi; quindi, una persona letargica, in presenza di qualcuno che sia attivo può arrivare a sentirsi spinta verso lo sforzo, o verso uno spirito di azione. L'individuo agitato, di fronte alla tranquillità, prova pace. Ma, ciò opera anche in senso opposto, quando, ad esempio, il benessere che viviamo diminuisce sotto l'atmosfera di un individuo depresso.
Il pensiero hindù, e sicuramente la sua struttura tradizionale e sociale, si è sempre basato sulla credenza che ogni individuo si collochi lungo la propria linea esistenziale, a secondo del guna che predomina in lui e si comporti secondo tale situazione; ossia, secondo il suo dharma individuale.
Dio - si dice - è al di là dei gunas e chiunque realizza la sua unione con Lui si suppone li abbia trascesi e non sia più dominato da essi. Poichè la vita sta nel superare i gunas, nel corso delle vite successive, durante le quali lo sforzo risiede nell'elevarsi sempre più in alto, l'Hindù ha cercato di farsi influenzare dal più elevato tra di essi e di evitare ogni influenza che avrebbe ritardato questa progressione. Ciò ha governato il suo comportamento e determinato le abitudini che egli ha, poi, seguite. Il suo scopo ed il suo oggetto sono stati quelli di salire sempre più nella gerarchia dei gunas, sino a passare interamente al di là di essa ed immergersi in Dio.
Così, Dio viene considerato del tutto adorabile, e del tutto degno di un culto. Benchè Egli sia senza forma, Dio - per il bene dell'umanità - assume diversi aspetti e modi di farsi conoscere. Le incarnazioni e le immagini rappresentano i ritratti del Suo Essere. In quanto divinità sovrana, riesiede nei templi e nei santuari. L'uomo che desidera venire protetto da Dio, e forse vuole amarlo e rassomigliargli, Lo va a trovare nel suo santuario, mostrandoGli rispetto e cercando di agire come Egli vuole. Attraverso queste intenzioni, l'uomo riesce a purificarsi a sufficienza ed a stabilire dei contatti con Dio. Per delle ragioni pratiche, ognuno può organizzare - per così dire - una succursale di un tempio nella propria casa; non con le sue mani, ma con il proprio cuore.
Dunque, l'atteggiamento fondamentale seguito in un ashram riguarda l'attitudine che deve manifestarsi in un tempio, o in un santuario. La pulizia è uno dei primi doveri, poichè essa contiene un forte elemento di sattva. Questo si riferisce non soltanto al corpo; ossia, al fatto che il devoto debba essere fisicamente pulito, nel suo organismo e negli abiti che indossa. Ma, anche al fatto che egli si sforza di conservare nel tempio una propria purezza mentale. Prima di entrarci egli lascia fuori le sue calzature. Ciò, per non portare la sporcizia della strada in un luogo ove la gente si siede a terra; inoltre, ripiegare le gambe sotto di sè per meditare risulta scomodo se si indossano delle scarpe. Infine, esiste per ciò una ragione più sottile. Togliersi le calzature davanti ad una divinità è un gesto di umiltà interiore e di rispetto.
Per abolire ancor più ogni legame con la sua posizione secolare e verso gli affanni del mondo, il devoto può anche sentire il bisogno di indossare un abito riservato unicamente alla cappella, e con il quale si trovi a suo agio per meditare; o, almeno, di drappeggiarsi in un chadar. Il chadar rappresenta in sè una sorta di uniforme, per il fatto che sopprime tutte le differenze individuali che distraggono, e proclama una solidarietà nello sforzo. Ciò evoca egualmente il sentimento di essere separati dagli altri - soli, con Dio.
E' cosa normale, entrando nella dimora del proprio Ideale, salutarLo con un gesto che Gli mostri il proprio rispetto; un prosternarsi chiamato pranam; ossia, l'atto di giungere le mani, in un gesto che si chiama namaskar.
E' superfluo indicare che, davanti al proprio Ideale si debba osservare il silenzio ed evitare ogni movimento disordinato. La parola asana significa postura, ed anche il cuscino sul quale ci si siede. Le gambe e le mani ripiegate, il tronco e la testa retti, sono un'attitudine di recettività. Allungare le proprie gambe davanti alla divinità, o mostrarGli leproprie membra, o assumere posizioni accasciate, tutto ciò viene considerato una mancanza di rispetto.
E' cosa naturale, quando si rende visita a qualcuno che si adora, portargli un dono. Il più grandi dei regali, quello che il Signore ama di più, è il sentimento presente nel proprio cuore; ci viene detto nella Gita che, se un tale sentimento esiste, una fogliolina simbolica, o l'offerta di acqua semplice Lo renderanno più che soddisfatto. Sicuramente, i devoti fanno anche doni in argento. Ma, l'offerta abituale consiste in fiori e cibo. I fiori dati durante il rituale -chiamato puja - dall'adoratore - detto pujari - sono resi ai devoti, dopo il culto, se essi lo desiderano, e li si conserva come delle sante reliquie, proprio come i Cattolici conservano le palme benedette dai preti, nella domenica delle Palme. Quando, poi, i fiori sarannoappassiti, essi non dovranno venire gettati nell'immondizia. Conviene, se possibile, farli ritornare alla terra; in un luogo ove non saranno calpestati da piede umano.
Va da sè che ogni fiore offerto debba essere puro e senza macchia; che non sia stato offerto a qualcun'altro, o, anche, odorato. Essi vengono abitualmente lavati, prima di essere donati e, a volte - affinchè siano maggiormente graditi al ricevente - vengono sfiorati da profumo e pasta di sandalo.
Le abitudini a riguardo del cibo porto sono simili. La frutta risulta accettabile se è fresca e naturale. Lo zucchero candito è il benvenuto; è un festino. Un nutrimento cotto può anch'esso venire dato, ma dovrà pervenire da una fonte più pura possibile. In India, i bramini fanno sovente da cucinieri perchè si pensa che in quanto tali posseggano delle qualità sattviche
Ogni devoto che prepara il cibo da offrire deve restare mentalmente e fisicamente pulito durante tutto il tempo e, naturalmente, non deve gustare gli ingredienti durante il processo della cottura, o quando esso è terminato. La lingua - si deve sapere - viene considerato un agente di profanazione; o, nei termini che utilizziamo, dovrebbe mostrarsi un trasmettitore efficace delle qualità. Infliggere le vostre qualità aglialtri, trasmettendo loro qualunque cosa sia stata nella vostra bocca, o l'abbia toccata, costituisce la peggiore delle ineducazioni. Ne discuteremo più avanti, quando parleremo dell'atteggiamento da mostrare a tavola. Inoltre, il Signore, dovendo essere il primo a sentire il profumo di un fiore, deve anche essere il primo a gustare un cibo.
Proprio come i fiori sono offerti durante la puja, così il cibo viene dato ai devoti dopo il culto. Essendo, questo, stato accettato da Dio, esso diviene, così, molto sattvico. La parola che indica il fenomeno è prasad, che significa "benedetto dall'accettazione di Dio ed imbevuto della qualità della sua energia". Un errore che i devoti compiono spesso è quello di indicare il cibo che essi portano per essere offerto, come "una consegna di prasad". Finchè esso non viene offerto non si tratta che del dono di semplice cibo; è solamente dopo che viene trasformato in prasad.
Il concetto di puja fatto in un centro, o ashram, di Ramakrishna è, in termini molto semplici, il seguente: il Signore è considerato come un invitato d'onore, un personaggio augusto che fa la grazia di renderci visita. L'adoratore è l'ospite, ansioso di compiere ogni cosa gli sia possibile per piacere al suo invitato; idea che non differisce minimamente dal tema della messa cattolica, che è un rinnovo dell'atto d'amore dell'ultima cena che il Cristo ha diviso con i suoi discepoli, prima della crocifissione. Ricordiamoci della grande importanza accordata all'ospitalità nei paesi orientali. La puja consiste nell'offrire cose gradevoli, fiori, nutrimento, incenso, profumo, luce, musica, ed anche l'acqua per bere e per lavarsi. L'acqua del Gange è considerata convenevole alla puja, e, se possibile, viene offerta. In ogni caso, l'acqua donata viene considerata trasformata in quella del Gange, per il fatto che sia stata accettata dal Signore. A volte, dopo il culto, viene bevuta in piccole quantità e con devozione, grazie al suo potere purificante.
Lasciate che vi narri un piccolo aneddoto, che si riferisce alla fede degli Hindù, per quanto riguarda le qualità purificatrici dell'acqua del Gange. E' costume in India versare qualche goccia dell'acqua del Gange nella bocca di un moribondo, come gesto di purificazione. Una volta, ad Hollywood, il mio guru, Swami Prabhavananda, mi chiese di accompagnarlo a visitare un discepolo che stava morendo. " Prendete un pò d'acqua del Gange dal santuario" - mi chiese - "per portarla assieme a noi". Andai nella mia camera, vuotai una boccetta di aspirine, la lavai con cura, la asciugai a fondo e la riempii con una piccola quantità di acqua del Gange, presa da un grande recipiente, conservato nel santuario. Mentre andavamo versol'abitazione del morente, dissi allo swami che avevo accuratamente lavato il recipiente. Egli si mise a ridere:" Non sapete" -disse - " che l'acqua stessa del Gange purifica ogni cosa che tocca?"
Ciò illustra un altro principio del pensiero sociale hindù. La purezza è di due tipi; o, piuttosto, vi è una purezza ed una pulizia. La pulizia, in quanto igiene, è molto importante presso gli occidentali ed è sovente confusa con la purezza; mentre, la purezza hindù, in realtà, riguarda non tanto il fisico, ma implica delle qualità sattviche. Di modo che, un ristorante con tovaglie molto linde ed un argenteria brillante, benchè igienicamente pulito, non aggiungerà nulla di spirituale ad un pasto, a causa dell'attitudine mentale e fisica dei cuochi e dei camerieri; mentre, i piatti serviti in modo molto semplice - se Dio è stato presente nella loro preparazione - può avere un effetto più sattvico; cioè, il nutrimento risulterà puro.
I gesti che il pujari compie durante la cerimonia sono chiamati mudras. Si dice che essi aiutino la concentrazione, che siano i simboli fisici di idee spirituali e liberino delle energie spirituali capaci di contribuire all'efficacia del rituale. Le parole, pronunciate in silenzio, o in modo udibile, dal pujari sono chiamate mantras, e costituiscono delle invocazioni, delle preghiere, delle citazioni di scritture, o delle formule che contengono il nome divino.
Bisogna sottolineare che una delle idee interessanti che riguardano la puja è che, considerato il fatto che il Signore possiede già tutto, diviene presuntuoso, da parte del devoto, cercare di offrirGli qualunque cosa. Ed allora, la prima iniziativa del pujari è di assumere un'attitudine divina lungo tutto il cerimoniale, poichè, in realtà, il rituale evidenzia che si sta offrendo a Dio quanto già gli appartiene.
Durante l'arati, l'officiare serale, si offrono a Dio gli elementi dell'universo: terra, aria, acqua, fuoco ed etere. Cosa sono mai lo spazio, il tempo, la causalità, se non una celebrazione cosmica nella quale Dio gioisce di ciò che è suo? Ma, si dice pure che, benchè sia il proprietario di tutto ,Egli non abbia bisogno di nulla; Dio accetta per la grazia quanto colui che l'adora Gli offre, poichè, gradendo tali atti di amore, Dio avvicina gli uomini a Sè.
L'uomo possiede cinque sensi, e, poichè la sua comprensione non va oltre, egli suppone che anche il Signore abbia cinque sensi. Cerca, allora, di compiacerGli facendo appello al Suo senso del gusto, ed offrendoGli dei cibi; mutando, così, in agente spirituale il suo proprio senso del gusto, e dividendo con Dio ciò di cui egli stesso si nutre.
Similmente, Gli vengono donati dell'incenso e del profumo come risultato del riflesso condizionato che nasce nell'uomo, di sorta che tutto ciò che si riferisce al proprio odorato spinge quest'ultimo verso la divinità.
Lo stesso avviene a proposito dell'udito. Abbiamo di già parlato dei mantras, e si suppone che pronunciarli provochi delle vibrazioni spirituali. E'nato un intero repertorio di canti, graditi all'orecchio di Dio e dei suoi adoratori. I canti intonati all'inizio (bhajan) ed alla fine della meditazione mattutina ed a Farati sono stampati in un opuscolo che può essere richiesto al Centro. La serie di jai ripetuti alla fine dei canti può intepretarsi come delle grida di vittoria dedicati ai diversi eroi vedantici."Jia" significa: "saluto a", oppure:"vittoria a". La lista dei jai e del loro significato si trova in questo libro dei canti.
Il quarto senso riguarda quello del tatto. Ci riferiamo, allora, al senso del tatto di Dio nel conforto che intendiamo farGli provare, offrendoGli degli abiti di prima qualità, un tempio gradevole, delle decorazioni di buon gusto. In India, nei giorni di calura, si conduce Dio in una passeggiata in barca, o anche verso dei padiglioni al centro intimo del tempio. Il tatto provoca uno scambio di vibrazioni, o di energia. Ecco la ragione per cui in India la gente non si dà una stretta di mano, ma si saluta congiungendo le palme (namaste). Toccare i piedi di un'immagine, o di una persona adorata - come un parente -, oppure un Guru, è un gesto di rispetto ed anche il desiderio di assorbire l'energia spirituale, o la qualità dell'immagine, o della persona. Lo scambio di vibrazione opera in due sensi. Un santo può trovare doloroso il lasciarsi toccare i piedi da persone piene, in particolar modo, di "peccati", in quanto tale contatto "tira" troppo da lui. Toccare i piedi esprime anche dell'umiltà. E' una benedizione raccogliere la polvere dei piedi di una persona onorata e portare questa polvere alla propria fronte.
La vista, il quinto senso, proprio come il tatto, viene considerato un processo, durante il quale delle energie, o delle influenze sottili sono trasmesse. La parola utilizzata per descrivere questo fenomeno è darshan. La divinità, oppure il santo, danno il proprio darshan a chi giunge in sua presenza, in un'attitudine di adorazione, per gioire della loro visione. Ci appelliamo al senso visivo di Dio nello sforzarci di proteggerLo in una cappella pulita, ordinata e decorata in giusto modo.
In rapporto alla tradizione di ricordarsi costantemente il prevalere del Signore, i devoti assumono l'abitudine di pensare a Lui, prima di ogni altra cosa. Prima di iniziare la giornata, essi si inchinano verso di Lui, alzandosi ogni mattino. Arrivando all'ashram, andando nella cappella, riconoscono la Sua essenza, salutandone l'immagine e rendendo omaggio al suo rappresentante, lo Swami in carica. Ogni regalo che essi ricevono, o tutto ciò che acquistano per loro stessi, Glielo offrono prima di utilizzarlo. Il cibo e le bevande sono mentalmente dedicati a Lui prima di venire consumati. Lasciando casa propria, oppure l'ashram, si prende congedo dal Signore; e ci si pone sotto la Sua protezione, come ultimo atto, prima di addormentarsi. In procinto di un viaggio, si chiede l'aiuto della Madre Divina, ripetendo:"Durga, Durga" alla partenza.
Gli ashram vedantici venerano differenti santi ed eroi spirituali, onorando la loro festa in modo più o meno importante: Natale, il giorno di Kalpataru (11 gennaio), l'anniversario di Ramakrishna, Pasqua, la nascita di Krishna sono celebrati pubblicamente a Gretz. Vi sono altre giornate festive, chiamate tithis pujas, o guru purnima, che vengono celebrate in privato (benchè, chiunque lo desideri possa assistervi). Le date (che cambiano ogni anno, a seconda della posizione lunare) vengono indicate in una lista, distribuita anch'essa su richiesta del fedele. Essa comprende gli anniversari dei discepoli importanti di Ramakrishna, la Durga Puja, la Kali Puja, la Shivaratri, e le date di Ram Nam - in cui la storia della vita di Rama e le sue gloriose azioni vengono celebrate in musica.
Dopo il Signore viene il Guru. Alla Missione, il guru tipico è un sannyasin hindù, appartenente all'ordine e designato tale dalla casa madre a Belur Math. Vi sono anche dei sannyasin occidentali nell'ordine di Ramakrishna; ma, sinora, soltanto due hanno diretto un centro, e nessuno di essi è stato autorizzato a servire dei guru.
Un guru viene considerato come il rappresentante speciale di Dio, capace di condurre gli altri a Lui. E' versato in particolar modo nelle Scritture e nei rituali hindù, e rappresenta una persona con certe abitudini e dalla saggezza paratica.
Benchè venga frequentemente affermato che il guru è Dio, nessun guru ragionevole prenderà alla lettera questa idea. Egli manifesta qualità divine. Fa della sua vita un esempio, e adopera la maggior parte del suo tempo e delle proprie energie ad aiutare gli altri, senza attendere una qualunque ricompensa. La riserva di spiritualità che ha acquisito lungo degli anni di rinuncia e di maturazione, egli può distribuirla ai discepoli (chelas) attraverso il rito dell'iniziazione (diksha), nel quale vien concessa una formula, o mantra, che contiene il nome divino. Questi mantras si rinvengono nelle scritture e sono dedicati all'una, o all'altra delle divinità scelte, o istham. Il japa è la ripetizione silenziosa del mantra, mentre si utilizza sovente un rosario di 108 grani, chiamato mala.Il mala deve essere conservato nel suo sacchetto speciale, o in una borsa, e, durante il suo utilizzo, restare coperto. Ogni esibizione esterna di una pietà eccessiva è considerata di cattivo gusto.
Si deve, tuttavia, sottolineare che ognuno è in grado di scoprire un mantra conveniente in un libro santo hindù ed utilizzarlo per il suo profitto, senza l'intervento di un guru. Esistono, oggi, delle pubblicazioni diffuse che contengono la maggior parte dei mantras importanti, con l'indicazione della loro corretta pronuncia. Ma, nella concezione hindù, l'iniziazione aggiunge in più qualcosa di molto importante: la trasmissione di un potere spirituale, attraverso l'udito, che apporta una nuova energia alle capacità latenti del chela.
Se il chela desidera considerare il suo guru come Dio, ciò può aiutarlo. In quanto amico, confidente, esempio, confessore, il guru è di grande aiuto. Ma, nella misura in cui egli utilizza la realtà tangibile per condurre verso l'intangibile. Un' eccessiva identificazione con il guru fisico può portare alla dipendenza, al fanatismo, alla gelosia, alla formazione di gruppi e di sette. Ogni guru che permetta di essere oggetto di culto diviene un pericolo per il suo proprio equilibrio e per quello dei suoi chelas. E'molto sottile il confine che permetta quell'identificazione che aiuti il discepolo, ed eviti nel contempo una qualunque glorificazione, che finisce per nuocere a lui ed all'organizzazione. Gli Swamis dell'ordine di Ramakrishna sono consapevoli di questo problema e le autorità di Belur Math sorvegliano di continuo le attività degli swamis autorizzati a dare l'iniziazione.
Voglio raccontarvi un fatto accaduto, e pertinente. Swami Siddheswarananda, fondatore del Centro di Gretz, era un guru molto popolare. Parlava apertamente dell'idolatria eccessiva di cui era oggetto da parte di certi discepoli, e della sua attitudine verso di essi. Spiegava, inoltre, che l'accordare un'adorazione esuberante risultava necessario per alcuni chelas, in vista del loro avanzamento spirituale. Ma, interiormente, Swami Siddheswarananda non accettava questo sbandieramento nei riguardi della propria persona. La sua attitudine era quella di farla scorrere (al reale Guru). Un vecchio discepolo, Mr. J.-L. Jazarin, racconta che, una volta, in Svizzera, vide Swami Siddheswarananda fare il gesto del namaskar, in strada, verso un cartello su cui era scritto :"Divieto di sosta"; egli disse, ridendo, che il cartello rappresentava per lui un upa-guru (precettore supplementare). E spiegò che rifiutare di accettare l'adulazione quando essa poteva aiutare un discepolo non era un atto di modestia, ma di egoismo. Ma, per quanto lo riguardava, non permetteva che quella si fermasse a lui, e, quindi, la orientava alla sorgente della vera ispirazione.
Inutile dire che il chela deve essere rispettoso, umile, obbediente, pieno di buona volontà verso il suo guru, perchè e' ancora un apprendista e tali qualità aprono il suo spirito verso l'arte di apprendere.
Il comportamento dei devoli associati alla Missione Ramakrishna implica l'accettazione di una gerarchia. E'un'idea dell'estensione del rispetto verso il guru. Il fondatore e capo del movimento, considerato sempre vivo, è Sri Ramakrishna, che spesso è chiamato Thakur (Signore), il Maestro, o Guru Maharaji. Tuttavia, ciò non indica un senso esclusivo. Ramakrishna è veduto come l'ideale incarnazione del pensiero della religione universale e della riconciliazione. I devoti possono assumerlo come un ideale di scelta (istham) se lo desiderano; ma, ciò non è necessario. Ogni concetto del personaggio spirituale può venire scelto come oggetto di adorazione, ed in tal caso Ramakrishna va considerato come un guru che facilita la realizzazione di questo aspetto particolare dell'Unico. Sri Sarada Devi è riverita come rappresentante l'idea della Madre (Shakti), o principio attivo. Swami Vivekananda è riverito come colui che ha reso popolare la rivelazione di Ramakrishna, la dottrina insegnata dai sannyasin del movimento Ramakrishna.
Si può dire che il Vedanta fornisca una base razionale di comprensione, entro un certo limite, di Dio, e che Ramakrishna abbia rivivificato i metodi pratici della realizzazione del Divino. Vivekananda ha, poi, combinato questi elementi in maniera attraente e ha dato agli uomini un corso pratico da seguire, adatto alle differenze individuali.
Questo, significa il Vedanta di Ramakrishna. Il simbolo dell'ordine di Ramakrishna rappresenta il Vedanta, sotto forma grafica. Mostra un loto sopra un lago, illuminato da un sole che sorge, e cinto da un cobra. Sulle onde nuota un cigno bianco. Sotto, si legge una frase sanscrita formulata da Swami Vivekananda: "Tanno Hamsah Prochodayat"; ossia:"Che Egli ci illumini". Il simbolo è un potente ideogramma per l'equilibrio armonioso e lo sviluppo dell'aspirante religioso. L'acqua simbolizza il karma yoga, per un progresso spirituale, attraverso il lavoro disinteressato; il loto, per il bakty yoga, indica lo sviluppo dell'amore divino; il sole che sorge, per l'inana yoga, è la pratica della discriminazione e della conoscenza. Tutti sono legati dal raja yoga - la concentrazione e la meditazione - che il "serpente" della spiritualità risveglia; il cigno al centro simbolizza l'aspirante, e potenzialmente l'Anima Suprema. Supportato da tutto ciò, deve emergere l'uomo ideale di Swami Vivekananda, sereno nella felicità, perfezionato nella bellezza del suo proprio Sè. La frase indica lo scopo ultimo di Vivekananda, che tutti i devoti debbono raggiungere ed al quale conducono il lavoro, il culto, gli sforzi e le lotte:" Possa Egli illuminarci tutti."
Il rappresentante di Ramakrishna in terra è il presidente dell'Ordine di Ramakrishna, eletto da un comitato di anziani swamis; essi stessi, a loro volta, scelti dai sannyasins dell'Ordine. In India, solo il Presidente ed i Vice-Presidenti hanno il potere di iniziare. Vi sono un Segretario generale e diversi altri funzionari. Ma, la gerarchia opera per rango di anzianità nell'Ordine; cioè, seguendo la data di entrata in esso. Di fatto, è possibile che un funzionario debba rispettare, come un suo superiore, uno swami non funzionario, che si trovi nell'Ordine da più tempo.
E'necessario spendere una parola, qui, in proposito al rispetto. Oggi, la giovinezza è glorificata dal suo aspetto attraente fisico e dal suo charme. Ma, queste, sono qualità che il possessore non ha acquisito, e che fanno parte di un dono della natura "ignorante". I devoti che cercano di progredire spiritualmente lottano contro la natura e cominciano a rendersi conto, dopo un certo tempo, di come sia lenta e difficile la purificazione. Vedono che un lungo lavoro è necessario per svilupparla in essi e cominciano a rispettare coloro che, invece, la possiedono. Le civiltà orientali sono caratterizzate dal fatto di avere valorizzato gli anziani ed i saggi. Il rispetto del valore spirituale viene inculcato al devoto vedantico e cresce a misura che il suo ego diminuisce.
Uno swami è un individuo che ha fatto voto di rinuncia: il sannyas. Tale grado è dato una volta all'anno a Belur Math (d'abitudine, il giorno dell'anniversario di Thakur). I suoi candidati seguono da nove a dieci anni di apprendistato. Il sannyas permette alla persona che lo riceve di essere chiamato swami, o sannyasin, e di indossare la veste di colore ocra. Nell'organizzazione sorella - per le donne -, il Sri Sarada Math, il termine equivalente è pravajika (sannyasin). Si raggiunge il sannyasin dopo aver ricevuto il brahmachari. Questo stato viene conferito durante una cerimonia ora permessa in occidente (America), come a Belur Math. Normalmente, ciò accade dopo cinque, o sei anni di noviziato. Un brahmachari indossa il colore bianco.
Il termine "monaco" è abitualmente riservato a coloro che hanno assunto il sannyas, e quello di brahmachari a tutti i novizi - che essi abbiano preso, oppure no, il brahmacharya formale. L'aggettivo "sadhu" è la denominazione generale che si dà sovente a coloro che si trovano in un monastero, nel loro assieme, e qualunque ne sia il grado. Ci si può sempre rivolgere ad un sadhu, chiamandolo "Maharaj". Un sadhak è un aspirante, un lavoratore, e le discipline spirituali che osserva un sadhak si chiamano sadhana.
L'ordine di Ramakrishna è un organismo di uomini. Nei centri e negli ashrams vi è una mescolanza dei due sessi. Ciò deve avvenire in modo corretto. La modestia nel comportamento ed il contegno sono importanti. Un ashram viene fondato e tutelato come un ritiro fuori del mondo, un angolo di vita che non è mondana, un piccolo porto per coloro che desiderano restare lontani dal samsara (la ruota delle rinascita e delle morti). E' cosa importante, di conseguenza, che coloro i quali entrano in un ashram rettifichino il loro comportamento in modo tale da non trascinare parte del mondo con essi
Va da sè che coloro che divengono degli adepti debbano aderire alle pratiche che conducono alla liberazione. Il parco non dovrà venire considerato come un terreno da camping, o una spiaggia. I rapporti tra gli individui devono matenersi su di una base relativamente formale. Gli incontri avverranno nella parte pubblica della casa, e non nel parco, o nelle camere. Si sconsiglia di portare con sè degli animali, poichè fanno nascere un'atmosfera di frivolità e di distrazione, e possono divenire causa di difficoltà; i sentimenti per gli animali, difatti, variano da persona a persona. Tra i fedeli deve esistere una purezza di rapporti, l'accettazione delle debolezze altrui, l'attenzione ad evitare lo scandalo, l'interiorizzazione della parola e dell'azione, una meditazione regolare, e lo sforzarsi di non mettersi in mostra. Una delle abitudini più pericolose sta nello speculare sul grado di elevazione spirituale altrui, o nel rivelare quello che vi concerne. Chiunque non possegga queste rispettive qualità urta l'ambiente e ritarda la propria realizzazione.
Mangiare è un fatto importante nella vita hindu, e riveste un ruolo significativo nella vita dell'ashram. La preghiera che precede il pasto (il 24° versetto del quarto capitolo della Gita) proclama che il fatto di nutrirsi rappresenta un atto spirituale. Nei centri vedantici si è instaurata un'etichetta che incorpora le idee orientali e quelle occidentali.
L'etichetta a riguardo del cibo si basa sulle idee menzionate prima: il contatto con la lingua insudicia; e nulla deve portare le proprie vibrazioni in contatto con quelle altrui. Il cibo è un trasmettitore molto efficace di vibrazioni.
In India i convitati si siedono per ceto e sono serviti da chi mangerà più tardi. Non ci si passa i piatti, l'un l'altro, e non ci si serve da soli. Le persone mangiano con le mani e, mancando l'uso di tovaglioli, ci si lecca le dita frequentemente (beninteso, le mani vengono lavate in modo conveniente, dopo il pasto). Mentre, in occidente, il pranzo si svolge in modo famigliare, ed ognuno passa all'altro i piatti, quando si serve. Quindi, la situazione, qui, è ben diversa, ed ogni contatto delle mani con la bocca - come quello di leccarsi le dita - non è sicuramente augurabile. Ridere, o soffiarsi il naso rumorosamente; o delle conversazioni troppo esuberanti a tavola, sono cose da evitarsi, per non correre il rischio di gettare materiale estraneo nel piatto del vicino, o nel vostro.
A tavola, servendosi, si farà in modo che il cibo cada nel piatto, evitando di toccare quest'ultimo con i coperti del servizio. Non si utilizzeranno il cucchiaio, o la forchetta che sono già stati messi in bocca, per depositare nel proprio piatto il cibo che ci viene passato.
L'abitudine occidentale di appoggiarsi, o di sedersi sul tavolo, mentre si mangia, non viene accettata, poichè è cosa indelicata posare la parte inferiore dei corpo sul posto dove ci si nutre.
A volte, ci si chiede: "Il Movimento Ramakrishna è una setta, e dove, gli swamis che dirigono il centro, differiscono dai personaggi che, spesso, hanno una cattiva reputazione?
Ciò sembra implicare il fatto che una setta sia necessariamente qualcosa di cattivo. Ma, non è il caso nostro. Il dizionario definisce una setta come un assieme di persone che formano un gruppo distinto, unito da credenze ed interessi comuni. La parola "culto", spesso utilizzata per indicare una devozione ossessiva verso una persona, o un ideale, può anche riferirsi ad un sistema, oppure ad una comunità culturale religiosa, le cui motivazioni siano degne. Non è cosa disdicevole affermare che la Cristianità sia apparsa, originariamente, come una setta; e, quando si separò dal Cattolicesimo, il Movimento Luteriano venne, all'inizio, considerato, anch'esso, una setta. Durante il Medio Evo, l'immensa devozione verso la Madre del Cristo venne indicata come un culto della Vergine Maria.
Ogni organizzazione umana rischia di imboccare una falsa strada; cioè, di provocare una regressione nei suoi simpatizzanti, piuttosto che elevarli. Di conseguenza, quando questo fatto avviene in una setta, oppure un capo crea un culto indirizzato al suo proprio profitto, o alla sua personale glorificazione, allora la parola setta, o culto vengono utilizzati nel senso di denigrazione, che giustamente si addice al fenomeno.
Tuttavia, delle sette, o dei capi conosciuti come perniciosi possono a volte fare un certo bene ai loro aderenti; per esempio, quando dei giovani dediti alla droga, o che conducono una vita licenziosa vengono aiutati a purificarsi ed a rintracciare un ideale di vita.
L'obiettivo del Vedanta è la liberazione spirituale di coloro che lo seguono. L'organizzazione non ne rappresenta che il tutore e lo swami in carica non è che il giardiniere utile quando la pianta è piccina. Swami Vivekananda diceva:" E'cosa buona nascere in una chiesa. Non altrettanto, il rimanervi". Lo sviluppo del programma del CentroVedantico Ramakrishna parla di dogmi e di templi come dettaglio secondario, essendo il nostro obiettivo quello di manifestare il divino in noi.
Quindi, il Vedanta di Ramakrishna costituisce una nuova chiesa? Sì, e no. Al di fuori dell'iniziazione, gli swamis non compiono alcun altro rito, come il battezzare dei bambini, o dei giovani; il consacrare i matrimoni, dare l'estrema unzione, sotterrare i morti. Non considerano l'Ordine, oppure essi stessi, come ciò che conferisce la salvezza. E, sicuramente, essi non operano nella gerarchia per fondare un'organizzazione Ramakrishna che possa e debba detenere un'influenza temporale. Viene, difatti, proibito ai membri monastici di occuparsi minimamente di politica. Ognuno di essi è libero di entrare, o di lasciare l'organizzazione, a qualunque momento. Tuttavia, il centro Vedantico può essere considerato come una chiesa, nel senso che offre un focolare locale, ove gli individui possano riunirsi per operare in direzione della propria salvezza, ed in presenza di un capo e di altri che si occupano della medesima ricerca.
A Gretz, ed in alcuni altri centri, vi sono determinate facilitazioni di Ashram, per le quali i capi famiglia possono vivere a stretto contatto i monaci , durante il loro ritiro spirituale; ciò somiglia alle comunità Esseniche dei tempi di Gesù e a quelle originali che nacquero agli inizi del Cristianesimo. Ed obbedisce all'indicazione di Ramakrishna, per il quale i capi famiglia, di tanto in tanto, dovrebbero assentarsi dai loro obblighi secolari per trascorrere qualche giorno in santa compagnia.
I sadhaks laici sono chiamati discepoli capi famiglia. Essi occupano un onorevole posto nel movimento. Non figurano nella gerarchia, ma la sostengono e ne ricevono un profitto spirituale. I centri, i templi e gli ashrams rappresentano il risultato fisico della cooperazione tra monaci e laici. Il ministero spirituale e la direzione quotidiana vengono portati avanti dallo Swami in carica, grazie all'opera dei suoi aiuti monastici e laici.
Gli adepti laici hanno un certo lavoro da compiere in riferimento al tempio. I monaci hanno la loro vita quotidiana dedicata a servire gli adepti laici; ed i fedeli acquistano una filiazione religiosa aiutando i membri monastici nel loro lavoro. E' uno scambio equo nel quale non vi sono nè perdenti, nè coloro che vi guadagnano; nè superiori, nè inferiori. Gli swamis svolgono a volte un' attività pratica, proprio in dimostrazione di ciò.
Formulando quelle regole che avrebbero guidato la vita monastica durante centinaia di anni, san Benedetto parla dell'equipaggiamento quotidiano - strumenti ed approvvigionamenti - come altrettanto preziosi del vasellame santo esposto sull'altare, che si dovrà utilizzare e di cui ci si dovrà prendere cura con eguale rispetto. Gli occupanti ogni ashram seguono codesta regola e la estendono agli edifici ed ai loro domìni.
Sant'Agostino immaginò la Chiesa come una città terrestre di Dio, nella quale i cristiani vivevano in armonia, preparando il proprio trasferimento nella sua controparte celeste. Noi tutti abbiamo un simile concetto a riguardo del centro Vedantico. Si tratta di una comunità di gente virtuosa. Ramakrishna diceva che i suoi devoti formavano una nuova casta, o una casta a parte. Cioè, i membri della Missione Ramakrishna costituiscono una fratellanza grazie alla loro adesione al suo ideale. Il nostro movimento non tende alla speranza di raggiungere il cielo nel senso cristiano del concetto, ma alla trasformazione di sè, che porta, in questa stessa vita, alla perfezione. Il Vedanta insegna come realizzarla. Il Centro dovrebbe venire considerato solo un ambiente spirituale, ed ogni cosa deve condurre a questo fine.
La vita in un ashram è un'esperienza nell'arte di sviluppare la destrezza e la sottigliezza. Benchè altre costumanze possano venire codificate - come ho cercato di fare in questo articolo - il reale successo per vivere in un ashram passa naturalmente attraverso l'interiorizzazione. Il carattere si affina. Ci si rende conto che le regole che conducono al successo nel mondo non hanno valore in un ashram (autorità sociali, mettersi in mostra -ad esempio). Si tratta di una sorta di comunità interamente diversa, con diversi obiettivi e modi di raggiungerli. In generale, nè il guru, e nè altri ve lo diranno. Dovrete apprenderlo, sentirlo con il vostro intuito; semplicemente facendo delle sciocchezze, sviluppando la modestia, il silenzio, il rispetto. Riassumendo: sattva - ed ancora sattva.
Tratto da Vedeanta n. 133 - Traduzione a cura di m.c.