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Ramakrishna

Sri Ramakrishna e San Francesco d'Assisi

II - Somiglianze e missione

San Francesco nacque nel 1182, Sri Ramakrishna nel 1836. Sei secoli li separano, ed anche dei mari e dei continenti; uno spirito razziale diverso li generò. Delle civiltà contrastanti formarono le basi della loro vita. Tempi, circostanze, ambienti, educazione, tutto ciò servì a differenziarli ed a separarli. Eppure, malgrado tutte queste influenze, si esprime in essi una fondamentale unità di pensiero, di sentimento, di applicazione e di missione.

Una divina fiamma avvampava in Sri Ramakrishna, come nel cuore di San Francesco. Se questi fosse nato in India, invece che in Italia, sarebbe stato considerato una Manifestazione divina, in quanto nessuna creatura, più di lui, ha mai saputo incarnare in modo più perfetto, come vita e carattere, lo Spirito cristico. Le stigmate hanno sigillato la sua appartenenza a Cristo. Divenne santo per il fatto di aver seguito una religione che accetta un solo Salvatore. Al contrario, l'insegnamento vedico non limita il numero dei Salvatori. Esso dichiara che, allorquando la spiritualità declina ed il materialismo diviene dominante, la Divinità assume una forma umana per ristabilire la coscienza religiosa di quella precisa epoca e di quel luogo. Di conseguenza, tale insegnamento avrebbe riconosciuto implicitamente San Francesco in questi termini.

Ogni grande istruttore si somiglia, nel modo di realizzare la propria missione. I riformatori sono, piuttosto, dei distruttori; mentre, i Salvatori di uomini si esprimono sempre come dei costruttori. Cristo ha detto:" Non sono venuto per abolire, ma per compiere", e tali parole si attagliano, tali e quali, alla natura espressiva di Sri Ramakrishna e di San Francesco. Quando insegnavano, nè l'uno, nè l'altro hanno mai abolito nulla. Ognuno dei due ha riparato e trasformato. Hanno edificato il nuovo nell'antico, e tramite quest'ultimo. Tale metodo è diverso dal metodo dei riformatori. Lutero, prima mise le basi e, poi, riedificò, su nuove fondamenta. Non penso, personalmente, che avesse l'idea di essere tanto tagliente; ma, vi fu portato dalla logica dei suoi argomenti e dalla propria posizione personale. E, poichè, all'inizio, fece opera di distruzione, quanto ha costruito esprime, oggi, un'impressione generale di carenza; di un qualcosa che potrebbe essere sfuggito, nella nuova struttura di pensiero

I risultati della sua opera vennero commentati anche all'interno alla propria famiglia. Si dice che, un giorno, sua moglie affermasse:" Martino, come mai, quando noi vivevamo nel monastero, le nostre preghiera erano tanto fervide, mentre, adesso, sembrano così tiepide?". Certamente, non era che le preghiere fatte nel chiostro salissero più rapidamente verso Dio di quelle espresse in casa. La ragione vera era che Lutero aveva allontanato dal suo concetto religioso un elemento essenziale: la rinuncia e l'abbandono di se stessi. Di conseguenza, egli è giunto a glorificare l'etica, a scapito della spiritualità. La virtù è necessaria, ma non rappresenta che una tappa preparatoria alla realizzazione spirituale.

I grandi Istruttori si assomigliano non solo per il loro modo di esprimersi , ma anche nella maniera di compiere la propria missione tra gli uomini. Budda, dopo una lunga ricerca spirituale e un non meno sfibrante combattimento sotto l'albero Bo, risultò vincitore nella notte in cui Mara, il Tentatore, si sforzò di farlo capitolare. Gesù, invece, andò nel deserto, ove venne tentato dal Diavolo. Francesco giunse egualmente ad esaurire ogni sua forza davanti al Crocefisso della cappella, in macerie, di San Damiano, fuori le mura di Assisi. Sri Ramakrishna agonizzò sotto l'albero banyan del tempio-giardino di Dakshineswar. Ognuno di essi dette battaglia alle forze di questo mondo, prima di poterlo aiutare. La lotta di Sri Ramakrishna fu lunga e senza pietà. Egli non combattè per se stesso, ma per l'uomo. Nella sua natura, conobbe, uno dopo l'altro, ogni ostacolo che si erge tra l'individuo e il suo ultimo obiettivo. Divenne lo spazzino degli spazzini; e ripulì, spazzandola, la casa di un parìa, sino a che giunse a sradicare in sè ogni traccia di orgoglio. Rimase seduto ai bordi del Gange, stringendo, in una mano, della terra e, nell'altra, dell'oro; e, ciò, fino a che giunse a comprendere la loro identica natura ed a raggiungere l'estinzione di ogni traccia di cupidigia. Piangeva e pregava, chiamando ad alta voce la Madre divina dell'Universo, sino a che, finalmente, vide cessare ogni desiderio. E venne la Visione, ma non il termine della lotta.

La realtà del Divino gli si era rivelata, ma egli doveva ancora assimilare la convinzione dell'unità di ogni credo e quella, conseguente, di ogni essere. Seguì, allora, la pratica di religioni diverse. Sedette ai piedi di numerosi Maestri. Pregò agli altari di altri credi e, ciò, sino a che tutte le espressioni del pensiero e del sentimento non giunsero a convergere in una sola Unità indifferenziata: egli realizzò l'Unità di Dio, l'Unità dei Credi, l'Unità degli uomini. Ed ebbe termine, allora, la lotta.

La battaglia di San Francesco fu meno intensa e meno definita. Iniziò dopo una malattia che lo scosse interamente. Lo si vedeva, prima, gioioso, compagnone, a cantare e camminare nelle strade di Assisi; e, il giorno dopo, mentre se ne stava passando nelle stesse vie, indebolito e poggiato su di un bastone. Gli riusciva, difatti, impossibile ritornare al suo antico genere di vita, perchè se ne ritrovava, all'improvviso, disgustato; gli amici di prima lo annoiavano. Se ne stava, allora, alla Porta Nuova - l'entrata della città presso casa sua - a contemplare la gradevole panura dell'Umbria, con il cuore appesantito da una nostalgica ricerca; ricerca di cosa? Lui stesso lo ignorava.

Un giorno, cavalcando attraverso un oliveto della vallata, si trovò - di colpo - davanti ad un lebbroso. Fermò il suo cavallo e girò le briglie; poi, tutto vergognoso, tornò sui suoi passi, mise piede a terra e, baciando la mano del disgraziato, gli rovesciò accanto il contenuto della sua borsa. Era la sua prima vittoria. In seguito, si recò spesso al lebbrosario per lavare le piaghe in suppurazione dei malati. Amava la compagnia dei poveri. Trascorreva molte ore solitarie in una grotta, fuori della città; oppure in una cappella abbandonata di San Damiano. Là, pregava, in solitudine, davanti al grande Crocifisso, posto sopra l'altare. Fino a quando, un giorno, questi prese vita, si chinò verso di lui e lo benedì. Fu la sua unzione. Non ne aveva bisogno di altre.

Tuttavia, la sua lotta non era finita, poichè il padre lo opprimeva di rimproveri, affermando che quel ridicolo comportamento rendeva ridicola la propria famiglia. Questi esigette anche, tramite il tribunale, che suo figlio gli restituisse tutto il denaro che egli aveva speso per lui. Francesco replicò spogliandosi dei costosi abiti che ancora indossava, e restituendoli al padre, mentre se ne restava nudo, lì, sul posto. Il vescovo gettò il proprio mantello su di lui, ed il guardiano gli dette una camicia. Poco dopo, Francesco si ricoprì solo di un vestito di iuta: e l'Ordine era già fondato.

Francesco non era monaco, nè prete, e non poteva offrire il sacrificio della messa. Ma veniva considerato diacono. Era predicatore, ma di tale levatura che centinaia e centinaia di uomini, ascoltandolo, abbandonavano il mondo per la vita conventuale. I suo sermoni non avevano alcunchè di straordinario. Non erano nè magniloquenti, e neppure forbiti. Rappresentavano dei semplici richiami, quasi infantili, perchè si offrisse tutto a Dio, senza restrizioni, nè costrizioni. Ma, al di fuori delle sue parole, era lui, come uomo, che stimolava la gente. Francesco non possedeva sapere ed aveva poca istruzione. Sapeva solo leggere e scrivere; e, ciò, anche, alquanto precariamente, come viene dimostrato dai suoi poco numerosi scritti. Attribuiva un minimo valore alla conoscenza, e cercava di escluderla dall'Ordine, considerandola una trappola di vanità, di orgoglio, di ambizione e un inaridimento del pensiero.

Sri Ramakrishna aveva la stessa attitudine. Non apprezzava le cocenti discussioni dei letterati e prendeva in giro i vanitosi, imbevuti del loro sapere. Poichè suo fratello era preside di una scuola di sanscrito, a Calcutta, avrebbe ben avuto tutte le possibilità di studiare. Ma, già quand'era giovinetto, chiuse i suoi libri, rifiutandosi di imparare oltre, su quanto potevano pensare gli uomini, prima di avere sondato il pensiero di Dio. Che veniva innanzi ogni cosa; e quello degli uomini contava, di conseguenza, poco per lui. Non poteva esistere rivalità in ciò.

Un giorno, un signore gli fece dono d'uno scialle di gran valore. Sri Ramakrishna ne apprezzò la bellezza e se lo drappeggiò addosso. Ma, più tardi, quando sedette a meditare, suo nipote gli rammentò di prenderne cura, visto il suo prezzo elevato. Sri Ramakrishna prese, allora, lo scialle, ne bruciò un angolo, lo gettò a terra e lo calpestò, esclamando:" Ora, non distrarrà più la mia mente da Dio."

Si narra un simile episodio a proposito dello spirito di San Francesco: quando gli scismi e le ribellioni, nati nell'Ordine, ebbero strappato il suo cuore, quando la sua vista divenne quasi spenta, quando il suo debole corpo si fece esausto a causa dei viaggi, egli decise di scalare le pendici rocciose dell'eremitaggio della Verna, per visitare il suo primo discepolo, Fratel Bernardo. Ma, Bernardo se ne stava in estasi, e non si accorse affatto di lui. Francesco si volse indietro, accorato dall'apparente indifferenza, quando una voce gli disse:" Lo spirito di Bernardo se ne sta rapito da Dio. Vorresti mai che egli si distragga dal Signore per te; te, una delle sue creature?" Piangendo dalla vergogna, San Francesco si gettò a terra, rendendosi conto di ciò che, inconsapevolmente, aveva pensato.

San Francesco si applicava delle frequenti penitenze, con un grande ardore. S'infliggeva delle punizioni implacabili, ma il peso del pentimento non riusciva, mai, ad oscurare a lungo il suo spirito ed il suo cuore. Possedeva la natura di un intrepido cavaliere, che accettava con gaiezza le probabilità del cammino. Per qualche tempo era stato un soldato e sapeva come affrontare i rischi della guerra. Nella Regola dell'Ordine "l'espressione cupa" era considerata un'offesa. I Confratelli erano obbligati ad offrire un volto sorridente a Dio ed agli uomini. Di modo che Francesco li chiamava, sovente:" I Gioiosi di Dio". Essi dovevano far gioire Dio con la loro gaiezza e non annoiarLo con dei pianti e dei lamenti.

Anche Sri Ramakrishna non desiderava vedere delle espressioni "scure". Egli affermava di non seguire una religione priva di un sano ridere. A quei suoi discepoli che si presentavano con il muso lungo, ingiungeva di allontanarsi e di rimanere soli, sino a quando le loro nuvole non si fossero dissipate. " Noi tutti siamo i figli della graziosa Madre dell'Universo, ed anche noi, quindi, dobbiamo essere graziosi."

La gaiezza che Sri Ramakrishna insegnava e che San Francesco richiedeva ai suoi adepti non era un sentimento che riguardava solo i momenti migliori. Era una gaiezza profonda, persistente nei rovesci, nelle persecuzioni, ed anche sotto i colpi fisici. San Francesco lo spiegò ad un Fratello, mentre camminavano, a piedi nudi e mal vestiti, durante una tempesta e nel pieno gelo dei venti:" Quando noi torneremo in convento, se i Confratelli ci proibissero di entrare, se ci gettassero a terra, o ci calpestassero, se ci colpissero fisicamente, ebbene, malgrado tutto ciò, noi dobbiamo gioire, poichè la letizia del Signore è onnipresente.