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Ramakrishna

(Prima parte)

Il periodo epico abbraccia circa tre secoli - dal 600 al 300 a.C. - e succede a quello upanishadico. E' allora che si delineano, nel pensiero hindù, due correnti distinte: l'una, ortodossa; l'altra, eterodossa.

La corrente ortodossa riguarda il Brahmanesimo; la corrente eterodossa, la tradizione buddista e jainista.

 

Gli inni vedici si rivolgono all'Essere supremo; riflettono il desiderio ardente di conoscere la verità che ispirava i grandi rishi. Le upanishad hanno continuato la tradizione vedica; hanno seguito la stessa ricerca, dandole nuovi sviluppi; ma, non sono giunte a condensare il loro pensiero in un corpo dottrinale.

 

I Veda avevano, in particolar modo, celebrato la devozione verso delle divinità ed evidenziato l'atto sacrificale, attraverso cui l'uomo ha la possibilità di relazionarsi ad esse. I saggi dell'upanishad si sono interrogati sul significato di questi riti, culti e liturgie; si sono preoccupati dei conflitti interiori; nulla è restato fuori delle loro ricerche; la loro critica si è estesa a tutto; i problemi che sempre ossessionarono lo spirito umano sono formulati in maniera netta; per risolverli, questi saggi si rivolgono all'aspetto astratto; si poggiano sulla Conoscenza che, sola, ha il potere di liberare; ma, l'intero pensiero di cui trattiamo resta ancora confuso e presenta, spesso, delle dissonanze e delle contraddizioni.

Di sicuro, troviamo nelle upanishad dei concetti d'una singolare profondità; si rintraccia in esse una libertà poco comune; a volte, un'incredibile audacia. Questi saggi hanno percepito, attraverso dei lampi, la soluzione degli interrogativi principali; ma, non sono stati capaci di far valere la loro scoperta. Di fatto, componendo le upanishad, essi ebbero per obiettivo quello di esporre la loro esperienza personale; non si sono preoccupati di costruire un'opera filosofica, nè di erigere un sistema coerente. Lo spirito di ribellione che li animava, verso ogni forma di devozione, non s'è ancora rappacificato; presto, il Budda riprenderà il lavoro incompiuto.

 

Si pensa generalmente che il Signore Budda fosse un innovatore; ma, se seguiamo il corso del pensiero hindù, non mancheremo di vedere in lui il continuatore dei saggi dell'upanishad. Egli appcontrastò le credenze ed i riti artenne, anche, a loro, poichè dell'epoca inviene considerato eterodosso, è cui visse. Se il movimento che fondò per la ragione che egli si rifiutò di riconoscere il valore della tradizione; in uno dei suoi ultimi momenti, disse:

 

" Non è attraverso un dogma che io vi imprigiono, ma nella capacità di trovare il vero, in sè stesso ed attraverso di esso."

 

Giunge sempre il momento in cui la moltitudine reclama un nuovo aspetto della divinità; il pensiero astratto, allora, non può soddisfare questo desiderio; anche tra l'élite intellettuale che era capace di comprendere questa filosofia, molti non se ne accontentavano più. La grande maggioranza degli uomini, attraverso ogni tempo, ha sentito la necessità di legarsi ad una tradizione e di contemplare un ideale concreto, verso cui la devozione potesse indirizzarsi.

 

I concetti di atman e di brahman, tanto famigliari all'upanishad, erano inaccessibili alla massa; ed allora si produce una reazione inversa; si prova un irresistibile bisogno; si vuole ascoltare, vedere, toccare un Ideale; l'Essere supremo è troppo lontano; lo si fa discendere in terra; Egli prende forma umana, si fa carne e, da questo momento, la devozione e l'abnegazione dei fedeli trovano il mezzo di manifestarsi liberamente.

 

E', dunque,per fornire un alimento a questa profonda aspirazione che appare, per la prima volta nella nostra letteratura, il concetto dell'Incarnazione divina (avatara), nelle figure di Rama e di Krishna.

 

La Bhagavad Gita è uno dei capitoli del Mahabharata; i due termini del titolo significano: il Canto del Beato, e questo poema ci tramanda l'insegnamento, il Vangelo di Sri Krishna. La dottrina filosofica, sparsa nelle upanishad, appare, qui, sistematizzata; e la nozione di Incarnazione, che riunisce in essa l'ideale religioso e degli alti concetti metafisici, assumerà, sia nella nostra letteratura, che nella nostra religione, un ruolo preponderante.

 

Ho già spiegato brevemente come ha preso nascita questa nuova corrente di pensiero; oggi, presenterò alcuni aspetti della Bhagavad Gita.

 

Questo poema è stato composto circa 300 anni a.C., ma gli avvenimenti storici ai quali si riferisce si devono situare in un'epoca ancor più lontana; la grande guerra descritta dalla Bagavad Gita ebbe luogo in una data che la critica moderna stabilisce a 1.000 anni prima di Cristo.

 

Allora, nel nord dell'India, esistevano numerosi Stati autonomi; in uno di questi ultimi, due potenti fazioni si opposero l'una all'altra:

 

- quella dei Koravas (i discendenti dei Kuru);

 

- quella dei Pandavas (i discendenti di Pandu)

 

Il capo dei Koravas si chiamava Duryodhana; quello dei Pandavas aveva ricevuto il soprannome di "Dharma-raja", ed era l'anziano di cinque fratelli, tra i quali dobbiamo citare Arjuna, l'eroe del poema. Tra queste due fazioni nascono incessanti litigi; la guerra è vicina; Duryodhana ed Arjuna implorano, ciascuno per conto suo, la protezione di Sri Krishna. Sri Krishna - lui stesso re di uno Stato vicino - esaudisce la preghiera dei suoi due fedeli; ai Koravas apporta il rinforzo delle proprie truppe; ad Arjuna, offre un aiuto ancor più prezioso; viene, di persona, a condurre il suo carro da combattimento. Le due armate si trovano faccia a faccia, organizzate nell'ordine della battaglia sul campo Kuruksetra (il campo dei Kuru), situato vicino a Delhi; un luoco che riteniamo, da sempre, sacro.

 

La stirpe dei Koravas rappresenta le forze del male; quello di Arjuna, le forze del bene. Nel momento in cui il combattimento sta per iniziare, Arjuna riconosce nei ranghi avversari del parenti prossimi che gli sono cari; il suo coraggio lo abbandona; lascia cadere le sue armi e grida:

 

"Mi rifiuto di partecipare a questa guerra. Cosa me ne farei del potere? Se è necessario, per conservare il mio regno, versare il sangue della mia propria famiglia, preferisco divenire monaco e andare a mendicare il mio nutrimento di porta in porta; non partecipo alla lotta, avendo come scusa il pretesto che coloro ch'io debbo massacrare sono gli oppressori del mio popolo."

 

Ecco lo sfondo, lo scenario storico del poema.

 

Arjuna è sconsolato, in preda all'illusione; ma, Sri Krishna ha sentito le sue parole; si volge verso il discepolo e lo consiglia di combattere. La guerra, generalmente, è considerata una calamità, e può sembrare strano che, in questa occasione, il Signore spinga Arjuna a gettarsi nella mischia; come dobbiamo comprendere il significato del messaggio? E' proprio il tema che sviluppa la Bhagavad Gita, e, lungo i diciotto capitoli che la compongono, essa ci prospetta un completo riassunto dell'intera filosofia del Vedanta; e noi possiamo consultare, in ogni circostanza, quest'opera; ci troveremo, sempre, dei pratici consigli per la nostra condotta personale.

 

Ognuno deve seguire due generi di doveri:

 

- gli uni, verso se stesso,

 

- gli altri, verso la società di cui fa parte.

 

Se riusciamo a comprendere correttamente le esortazioni di Sri Krishna, eviteremo di replicare l'errore abituale; e non generalizzeremo le istruzioni del Signore. Questo messaggio non suggerisce a tutti gli uomini di fare la guerra; si tratta di particolari indicazioni che concernono solo Arjuna. Costui deve, in primo luogo, capire quale sia il proprio dovere; e, solo in tal modo, egli potrà progredire, dal punto di vista spirituale.

 

Terminata l'evoluzione, l'ego si dissolve; si annichilisce nella comprensione della totalità (sarva). Ora, se noi fronteggiamo con coraggio ogni dovere della vita quotidiana, avremo la possibilità di ridurre, poco a poco, ogni tensione interiore; fino a quando sussiste in noi la minima resistenza dell'ego, ci è impossibile, sia conoscere Dio -se procediamo lungo la strada della devozione - che di fonderci con Brahmam, se scegliamo quella della conoscenza. L'errore nasce sempre dal fatto che l'individuo si osserva come colui che agisce (karta); egli dice:"Ho fatto questa, o quella cosa." E' l'ego, immerso nell'ignoranza, che si esprime in questa maniera; in realtà, lo stesso Dio agisce attraverso gli esseri e le cose.

 

Cominciamo, dunque, a studiare la natura dell'ego: l'ego (la vivente individualità che noi chiamiamo "jiva") non è che un aspetto della manifestazione; non appena entriamo in essa, cadiamo sotto il dominio della Natura (prakriti). Qui, si presentano le due categorie di esistenza, riconosciute dallo Samkhya - sistema che, abbiamo visto, è anteriore al Vedanta -; e queste categorie sono le seguenti:

 

- l'una è: purusa, l'Essere superiore, il principio spirituale.

 

- l'altra: prakriti, la Natura primordiale, la materia omogenea.

 

Quando prakriti si trova in uno stato di perfetto equilibrio, essa è indifferenziata; non esiste traccia di manifestazione. In contatto con purusa, la materia si anima; l'azione di Dio opera nella Natura; è allora che, secondo il Samkhya, nasce la prima vibrazione.

 

Debbo, a proposito, rimarcare un fatto; per il momento, spiego un testo, e mi riservo di criticare, più avanti, questa posizione filosofica.

 

A questo punto appare, in prakriti, una rottura di equilibrio; la Natura si manifesta; la materia cosmica entra in movimento. Prakriti possiede, in effetti, tre attributi (gunas):

 

-il tamas, o l'inerzia;

 

- il rajas, o l'attività;

 

. il sattva, o la purezza.

 

L'inerzia tende a diminuire; l'energia si afferma intensamente. Quando l'energia si indebolisce, la Natura si purifica; al contatto con purusa diviene sattvica. La funzione di purusa èdi galvanizzare la materia. Ma, appena questa raggiunge un sufficiente grado di purezza, si autodisintegra.

 

L'ego - ossia, la nostra individualità -non è altro, e lo ripeto, che un aspetto della manifestazione; fa parte, anch'esso, della Natura cosmica. E, come abbiamo riconosciuto tre attributi per il cosmo, per lui esistono tre stati di manifestazione: inerzia, energia, purezza, a seconda che un tale, o tal'altro guna vi predomini .

 

Ora, stiamo considerando solo il suo aspetto sottile; ma, se ci soffermiamo su quello grossolano, anche ivi distingueremo questi medesimi tre attributi.

 

Quando il mentale si trova in uno stato inerziale, non risponde alle eccitazioni esteriori; non gli è possibile evolvere. L'ego si esprime, innanzitutto, come energia (rajas); questa prima espressione si traduce con la seguente affermazione:" Io sono."

 

Tengo - onde evitare ogni confusione - a ripetere quanto ho già asserito: -spiegando dei testi, mi è necessario assumere un'attitudine oggettiva; non è,però, esattamente il mio pensiero che sto esponendo. Mi riservo di criticare ulteriormente la posizione filosofica di Samkhya.

 

Dal punto di vista sottile, o mentale, le forze di attrazione (raga), o di repulsione (dvesa) formano il carattere di ogni individuo, e, secondo Samkhya, queste rappresenta un nodo di tendenze; l'attrazione e la repulsione si esercitano come delle forze gravitanti attorno ad una presa di coscienza individuale; ciò chedistingue il mio carattere da quello di un altro è proprio il senso dell'ego; il sentimento del me, che chiamiamo "asmita".

 

Tutti i nostri pensieri, tutti i nostri desideri, tutte le nostre inclinazioni tendono ad un solo obiettivo: placare l'appetito di vivere, spegnere la sete di esistenza (abhiniveca).

 

La vita spirituale può svilupparsi in noi nella misura in cui si affievolisce il senso dell'ego. Se, al contrario, si accentua la resistenza, e il sentimento dell'io si rafforza, ci allontaniamo dalla verità.

 

Constatiamo, da quanto precede, che la "realizzazione" resta condizionata dai rapporti che stabiliamo con la Totalità. La vita spirituale ha, di conseguenza, lo scopo di eliminare la tensione dell'ego, che si esprime attraverso delle resistenze. Non ci è possibile raggiungerla di colpo e sbarazzarcene come di un fardello che ci infastidisce, e che si getterebbe a terra; non possiamo far altro che progredire, passo dopo passo, e facendo fronte agli obblighi e ai doveri che incombono su di noi. Così, Krishna, esorta Arjuna in questi termini:

 

"Il tuo dovere è di proteggere coloro che sono soggetti a te; non puoi eluderlo; opponiti al male; riprendi le tue armi e comportati sul campo di battaglia come un guerriero valoroso."

 

Questo insegnamento non concorda con la Vita spirituale.

 

In un'altra Gita, intitolata Uddhava Gita - che fa parte di un poema epico, il Bhagavata purana - Sri Krishna dà a Uddhhava, il suo discepolo, dei consigli del tutto diversi:

 

"Tu sei un asceta, e devi agire come tale; pratica l'ahimsa (la non violenza, la non resistenza); ritirati in un luogo solitario e lasciati andare alla contemplazione."

 

Le prescrizioni che vengono indirizzate ad Arjuna e a Uddhava non sono identiche, perchè i due discepoli hanno, ognuno, un dovere particolare da compiere; se Uddhava è un asceta e deve darsi alla meditazione, Arjuna, nato nella casta dei guerrieri, è un re, un protettore del popolo; deve combattere.

 

Il carattere e la situazione sociale determinano il dovere di ogni individuo, ma i precetti che si confanno ad Arjuna possono essere messi in pratica da tutti gli uomini che, nella loro vita, si trovano davanti ad un problema simile. In ogni situazione, dobbiamo sforzarci di integrare l'ego alla Totalità; questa è la prima realizzazione del divino e non potremo pervenirci se non purificando l'ego, attraverso una disciplina spirituale; bisogna divenire consapevoli del Sè che risiede nel cuore di tutte le cose. Colui che realizza l'Essere superiore, si accorge allora che il suo atman è l'atman di tutti gli esseri; e questo "Me", indefinitamente espanso, diviene il centro ed il pernio dell'universo.

 

L'adattamento al mondo esterno esige che, prima di ogni altra cosa, noi ce ne creiamo, nel nostro interno, un altro; è in noi che, innanzitutto, dobbiamo far regnare l'armonia. Ecco il principale insegnamento della Bhagavad Gita; ci insegna come giungere ad una sintesi dei differenti elementi del nostro mentale.

 

Certi psicologi moderni hanno attratto la nostra attenzione su una considerazione: ospitiamo in noi diverse individualità, e la mente è, molto spesso, dilaniata da lotte che si oppongono una all'altra. Cominciamo, quindi, ad unificare queste opposte tendenze; e non vi riusciremo se non fortificando le nostre aspirazioni verso la vita spirituale. E in questo sforzo, dobbiamo contare solo su noi stessi; l'atman può divenire, allora, sia il nostro amico, che il nostro nemico. Tutte le energie che possono aiutare la nostra rigenerazione, sono in noi; esse attendono che si faccia loro un cenno.

 

Wordsworts ha usato un'espressione simile:" Fino a che l'uomo non è riuscito, tramite i suoi propri sforzi, a superare se stesso, è rimasto tale e quale era: un povero diavolo!" E, nelle nostre sacre Scritture, ritroviamo lo stesso concetto:

 

"L'uomo deve elevarsi da solo e non lavorare per il proprio decadimento, poichè può rappresentare il suo miglior amico, ma, anche, il peggior nemico."

 

Bhagavad Gita, VI/5

 

Ognuno di noi possiede la facoltà di accedere ad un livello di coscienza più elevato dell'attuale. Cosa dobbiamo fare perchè ciò accada?

 

La Bhagavad Gita risponde:"Aguzzate il vostro buddhi". Il buddhi è l'intelligenza, la ragione superiore; l'intuizione, assunta nel suo senso etimologico; non si tratta dell'intelletto, o della ragione discorsiva. La funzione di buddhi è discriminare la verità dall'errore.

 

Nel 1939, ho visitato, a La Haye, l'umile mansarda, ove Spinoza ha vissuto per lunghi anni; il soffitto è talmente basso che i visitatori non possono stare in piedi, se non abbassando il capo; non è senza emozione che ho letto la scritta che questo filosofo ha tracciato sul muro, con la propria mano: oukunde doet dwalden (l'ignoranza è la causa dell'errore).

 

Sri Krishna proclama la medesima verità:

 

" Si deve puruficare il buddhi, poichè l'errore nasce sempre da una cattiva applicazione dell'intelligenza."

 

Ci è richiesto di esprimere un grande sforzo; dovremo fare atto di discriminazione, senza cessa; ma, verrà il momento in cui buddhi, come una vigile sentinella, resterà sempre sul chi vive; è con il testimone che dimora costantemente sullo sfondo della nostra individualità che noi dobbiamo identificarci.

 

Nel primo capitolo della Bhagavad Gita, se Arjuna lascia cadere le sue armi, è perchè si trova vittima dello smarrimento; buddi s'è oscurato in lui; alla fine del poema, nel XVIII capitolo, egli esclama:

 

"Oh, Signore, ho recuperato la mia intelligenza, ed ora comprendo."

 

Nel frattempo, Sri Krishna gli ha prodigato i suoi avvertimenti e spiegata l'intera filosofia; gli ha svelato ogni segreto spirituale; gli è apparso di persona, Lui, il Signore; tutto fu inutile; Arjuna doveva dissipare il suo errore da solo, prima di decidersi a combattere.

 

Buddhi è la scintilla divina che illumina, con il suo bagliore, l'intera Vita spirituale; se permettiamo che si veli, cadiamo nell'ignoranza, commettiamo degli errori.

 

Per purificare buddhi esiste un metodo: la pratica dello yoga.

 

Lo yoga

 

Se consideriamo la maggioranza delle lingue indo-europee, ritroviamo la stessa radice nei termini: yoga, jugum, joug, yoke, ecc.. La parola "yoga" significa unione; è il momento in cui l'individuo si unisce all'essere supremo.

 

Esistono diverse definizione dello yoga; iniziamo a scorrerle.

 

1° Ecco quella che fornisce Patanjali, il massimo psicologo dell'India, che visse tre secoli prima di Cristo: lo Yoga è la soppressione totale di ogni modificazione (vrittis) del pensiero.

 

Questa non una spiegazione filosofica, ma di ordine psicologico. Non appena nasce la minima onda nella mente, appare la molteplicità. Attraverso la concentrazione si giunge a sospendere ogni moto del pensiero; non si tratta di atrofizzare lo spirito, nè di immergersi in un sonno profondo. Ma ,di provocare solo l 'arresto di ogni attività mentale.

 

Creare il vuoto spirituale non è una cosa semplice! Ammettendo che vi si possa pervenire, l'appetito di vivere è così forte e vivace che l'individualità non accetta di venire annichilita; l'arresto del pensiero equivale al silenzio, alla morte, e non ci si risolve a morire in se stessi; quando tocchiamo l'apice, appare, allora, un sussulto; l'ego si riappropria dei suoi diritti. Finchè la sete di esistenza si fa sentire in noi, dobbiamo rinunciare a godere della suprema Felicità.

 

Non immaginatevi che ciò sia pura teoria. Se, un giorno, visiterete l'India, incontrerete sicuramente degli yoghi capaci di realizzare il vuoto nella loro mente; il mio maestro (Sri Ramakrishna) ha realizzato questa prodezza, come molte altre; si resta in questi stato per diverse ore, per diversi giorni; a volte, per diversi mesi; il corpo è completamente inerte, inanimato; presenta la rigidezza di un blocco di pietra; non un respiro, non un battito del cuore.

 

Questo totale arresto del pensiero, questo vuoto assoluto dello spirito Patanjali lo chiama yoga, Unione.

 

2° Il Samkhya e la Bhagavad Gita offrono una versione diversa: lo yoga è la realizzazione dell'omogeneità.

 

Sino a quando si percepisce la più leggera distinzione, l'Unione non può realizzarsi; nell'Unione perfetta non appare che eguaglianza, identità, omogeneità. Nel capitolo VI, la Bhagavad Gita dice:

 

20.- "Quando il pensiero si arresta, sospeso dalla pratica dello yoga;

 

" Quando, realizzando l'atman (universale) attraverso l'atman (individuale), il Saggio gode la soddisfazione nel suo proprio Sè;

 

21.-" Quando conosce questa Felicità infinita che, inaccessibile ai sensi, non può essere sentita che attraverso buddhi;

 

"Quando, fermamente stabile nell'atman, non può più separarsi dalla verità;

 

22.- "Quando, dopo essersi elevato sino a questo stato, pensa che non vi potrebbe essere per lui un guadagno superiore a questo;

 

" Quando, stabile nell'atman, non è più turbato dalla più viva delle sofferenze;

 

23.-" Quando il contatto con il dolore è definitivamente interrotto, ecco cosa viene chiamato yoga;

 

" Sappilo. Ma, bisogna che lo yoga venga praticato con una indomabile risoluzione, con una volontà che non si faccia mai piegare."

 

Il Sè di cui si parla, è l'atman; e lo yoga, come viene descritto, è la cessazione di ogni rapporto con il dolore.

 

Si è portati a chiedere quale sia, dal punto di vista filosofico, il valore della prima definizione; riconosciamo, comunque - al di fuori di ogni teoria e di ogni costruzione intellettuale - che, attraverso questo procedimento sperimentale, si può contemplare l'aspetto del non-manifesto, complementare alla manifestazione; a riguardo, l'esperienza offre un capitale interesse, e dobbiamo prenderla in seria considerazione.

 

La seconda definizione permette di dominare la sofferenza e di conoscere Dio. Non si tratta, come per i buddisti, di giungere ad uno stato puramente negativo, ove la sofferenza non appare più; qui, ci si sforza di raggiungere un risultato positivo, di accedere ad un ordine superiore di realtà.

 

3° Ecco la terza definizione: si realizza l'Unione perfetta , sviluppando costantemente in sè l'abilità professionale, aumentando senza posa l'efficacia di ogni nostro atto (yogah karmasu kausalam)

 

Ecco, le tre più importanti definizioni.

 

(fine della prima parte)