Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai alla sezione

Ramakrishna

II più grande discepolo di Râmakrishna è Narendranâth Datt, o più semplicemente Naren, detto, a partire da un certo momento, Vivekânanda, e qualificato con il titolo di swâmî (pronuncia: suami; titolo che, applicato ai membri di un'organizzazione religiosa, si potrebbe benissimo tradurre come reverendo).

Tranne che per quanto riguarda la vita spirituale e la dottrina, e per il fatto che ambedue sono originari del Bengala, maestro e discepolo sono agli antipodi sotto tutti gli altri punti di vista.

Prima di tutto dal punto di vista fisico. Râmakrishna era un povero essere gracile. Vivekânanda è un atleta, di alta statura, di forte peso, quadrato di spalle, largo di torace. Le sue sono le braccia muscolose di uno sportivo allenato a tutti gli esercizi. Il viso olivastro, dalla ampia fronte, dai grandi occhi scuri, e dalla robusta mandibola, spira impressionante maestà. Il portamento della testa è dominatore. Si vede in lui una bellezza leonina. La sua voce è (secondo la cantante Emma Calvé) «quella di un notevole baritono con vibrazioni di gong cinese».

Vi è antitesi, inoltre, dal punto di vista sociale. Il maestro era un brâhmana poverissimo, che ignorava tutto ciò che non fosse la religione, per lo meno durante la prima parte della sua vita. Il discepolo appartiene alla casta guerriera degli kshatriya, e ad una famiglia ricca. Possiede tutti i doni del corpo e dello spirito, e, fin dall'infanzia, li coltiva tutti. Sa ballare, nuotare, remare, fare la boxe, cavalcare. Ha studiato la musica vocale e strumentale, ed anche le matematiche, l'astronomia, la filosofia, le lingue dell'India e dell'Occidente. «Uomo universale, secondo i canoni di Leonardo e dell'Alberti», dice Romain Rolland.

Altra differenza, più sottile, negli intimi rapporti del cuore e dell'intelligenza. Vivekânanda disse di Râmakrishna : «Egli era tutto bhakta (credente per amore) al di fuori, tutto jñânin (che sapeva per intelligenza) al di dentro. Io, invece, sono il contrario».

Narendranâth Datt nacque a Calcutta, il 12 gennaio 1863. Suo nonno, uomo di legge, ricco e colto, a venticinque anni aveva abbandonato famiglia e posizione per diventare un semplice sannyâsin e ritirarsi nella foresta, di dove non era mai più tornato. Il padre, influenzato dal positivismo dell'Occidente, aveva perduto la fede, si abbandonava ad un sorridente scetticismo, conduceva una vita fastosa, interrotta da slanci generosi ispirati dalla pietà. La madre univa ad una vasta cultura tradizionale una rara delicatezza morale ed una illuminata religiosità. «Mia madre, - egli disse - fu la mia ispirazione costante, nella vita e nella mia opera».

Preso da interesse per il Vedânta, portato talvolta a meditare sull'Imitazione di Cristo, tra i diciassette ed i ventun anni attraversa una serie di crisi intellettuali e morali. È sconvolto dalla lettura del libro di Stuart Mill (1806-1873) Saggio sulla religione. Temporaneamente aderisce alle tesi di Herbert Spencer (1819-1903), al quale scrive. Secondo alcuni suoi storici, egli, in tre anni, avrebbe studiato un numero notevole di filosofi occidentali, ciascuno dei quali avrebbe richiesto lo stesso tempo per essere ben capito: Descartes, Spinoza, Hume, Kant, Fichte, Hegel, Schopenhauer, Auguste Comte e Darwin.

Invitato da Keshab Candra Sen, si fece iscrivere al Brâhma-Samâj, i cui giovani adepti vogliono l'unità delle grandi masse dell'India senza distinzione di caste e di fedi.

È preso da due opposti desideri, che si materializzano nei suoi sogni nel momento in cui s'addormenta: a volte si vede fra i grandi di questo mondo, in possesso di ricchezza e di potenza, ricolmo di onori; a volte immagina di rinunciare a tutte le cose della terra, si vede, coperto di un semplice perizoma, addormentato ai piedi d'un albero, vivere di elemosine, conquistando così la felicità suprema.

Ha poco più di diciassette anni quando, per la prima volta, incontra Râmakrishna, in casa di un indiano convertito al Cristianesimo, dove si è recato per cantare.

Dietro suo invito, si reca a visitare il santo nel tempio di Dakshineshwar. Râmakrishna lo prega di cantare, poi, improvvisamente, lo prende per mano, lo conduce in una veranda di cui chiude la porta, scoppia in lacrime, gli rimprovera di esser venuto molto tardi, di averlo fatto aspettare a lungo. Con le mani giunte, Râmakrishna annuncia al suo ospite che egli è l'incarnazione di un essere divino apparso sulla terra per salvare l'umanità dalla miseria.

Il giovane lo crede matto da legare. Tuttavia rimane turbato. Chiede: «Signore, hai visto Dio?». Si sente rispondere: «Sì, figlio mio, l'ho veduto. Lo vedo in verità così come vedo te davanti a me. Soltanto, io vedo il Signore con molta maggiore intensità, e posso mostrartelo».

Pur essendo attratto da Râmakrishna, il giovane resiste a lungo prima di cedere. A volte, moltiplica le obiezioni e le critiche. In altri momenti, il contatto del santo lo persuade che nulla esiste all'infuori di Dio.

La morte improvvisa del padre prodigo e dissipatore, getta nella rovina la famiglia di Naren. Per mantenere sette persone, egli cerca lavoro, senza trovarne. Abbandonato dai conoscenti, respinto dappertutto, conosce l'estrema miseria. Si rivolta contro Dio, ripete le parole di un suo contemporaneo: «Se esiste un Dio buono e pieno di grazia, perché milioni di uomini muoiono per la mancanza di pochi bocconi di cibo?».

Tuttavia, un giorno in cui non ha mangiato nulla, ed è sfinito e bagnato di pioggia, si accascia sul bordo di una strada. Ha, in quel momento, una rivelazione che spazza via i suoi dubbi.

Rispondendo ad un richiamo di Râmakrishna, si reca da lui a Dakshineshwar. Divide il suo amore per la Madre Divina, e finalmente accetta di diventare discepolo del santo.

Ne sarà il discepolo prediletto. Gli viene annunciato un alto destino religioso e morale: «Farai grandi cose nel mondo: darai agli uomini la conoscenza spirituale e consolerai la miseria degli umili e dei poveri».

Proprio Naren, Râmakrishna farà chiamare pochi giorni prima della sua morte; con lui solo ha un lungo colloquio; a lui trasmette tutti i suoi poteri; a lui, poche ore prima del supremo distacco, dà le ultime istruzioni.

Dopo la morte del Maestro, Naren riunisce i discepoli e li guida. Una sera, la vigilia del Natale 1886, racconta loro la storia di Gesù; insieme ad essi fonda un primo monastero, quello di Barânagore, presso il Gange.

Decide di prendere più stretto contatto con il suo grande paese che ancora conosce assai male, compie molti viaggi. Desidera fare un ritiro nell'Himâlaya, ma, giunto ai piedi dei monti si ammala. Un'altra volta, attraversa l'intera India, fino all'estremo sud, a piedi, avvicinando volta a volta i mahârâja, i pandit, la gente del popolo, i paria.

Scopre sempre più chiaramente la passata grandezza dell'India, e la sua presente miseria. La profezia di Râmakrishna sta per compiersi: «Un giorno, quando Naren entrerà in contatto con i sofferenti, i miserabili, l'orgoglio del suo carattere si scioglierà in un sentimento di compassione infinita». Il discepolo ripete una terribile frase del Maestro: «La religione non è fatta per i ventri vuoti».

Egli si chiede se non sarebbe il caso di chiamare il resto del mondo in soccorso dell'India, e di servirsi, a questo scopo, di un Parlamento delle religioni che deve esser tenuto a Chicago. Decide di recarvisi.

A due discepoli di Râmakrishna, incontrati pochi giorni prima della partenza, egli dice: «Ho viaggiato per tutta l'India, ed è stato un tormento per me vedere la povertà e la terribile miseria delle masse. Non posso trattenere le lacrime. Ora è mia precisa convinzione che è inutile predicare agli sventurati la religione, senza recar sollievo alla loro povertà e alle loro sofferenze. Per questo motivo, per salvare i popoli dell'India, sto per partire per l'America».

Durante i suoi viaggi attraverso l'India, e per dissimulare la sua identità, aveva spesso cambiato il nome, pur dichiarandosi sempre swâmî. Nel momento in cui saliva sulla nave, il mahârâja di Khetrî, amico suo, gli suggerì un nuovo nome, destinato ad esprimere il suo potere di discriminazione: Vivekânanda. Sotto questo nome, d'ora innanzi, Naren sarà conosciuto, e diventerà famoso.

Partito da Bombay il 31 maggio 1893, egli passa per Ceylon, Singapore, Hong-Kong, di dove si reca a visitare Canton; Nagasaki, di dove visita le grandi città del Giappone. Da Vancouver va a Chicago, poi a Boston. È stupefatto nello scoprire la potenza materiale dell'America.

L'11 settembre 1893 si apre a Chicago il Parlamento delle Religioni. L'alta statura ed il nobile viso del giovane indù attirano l'attenzione, come il suo smagliante costume, abito rosso, stretto in vita da un nastro arancione, gran turbante giallo contrastante con il nero dei capelli.

Nel suo primo intervento commuove i presenti con queste parole: «Fratelli e sorelle d'America!». Esprime il concetto che tutte le religioni conducono allo stesso Dio. È oggetto di un'ovazione. Nelle seguenti sedute, lo fanno parlare dieci o dodici volte. I giornali affermano che, indubbiamente egli è «la massima personalità al Parlamento delle Religioni».

Viene invitato a tenere un ciclo di conferenze attraverso gli Stati Uniti. Egli accetta. Talvolta le sue critiche alla civiltà occidentale, materiale ed inumana, esasperano gli ascoltatori. Spesso la sua idea di una Religione Universale suscita l'entusiasmo. Ad una élite di intellettuali le sue conferenze rivelano il Vedânta. Alcuni discepoli, uomini e donne gli si stringono intorno. Il filosofo William James (1842-1910) lo invita ad intrattenersi con lui.

Dopo tre anni di viaggi attraverso il Nuovo Mondo, Vivekânanda si reca in Inghilterra, dove, dal 10 settembre 1895 al 16 dicembre 1896 soggiornerà tre volte. Credeva di dover odiare il popolo che tiene oppressi i suoi compatrioti; invece prova per gli Inglesi stima e simpatia. Li ritiene «coraggiosi e costanti», li elogia per aver scoperto «il segreto dell'obbedienza senza servilismo e della massima libertà unita al rispetto delle leggi». Entra in rapporto con un maestro della indologia, Max Muller (1823-1900): «Vorrei avere - egli scrive - la centesima parte del suo amore per l'India».

Tiene delle conferenze che gli fruttano amici e discepoli. Una famiglia inglese, i Servier, decide di abbandonare l'Europa per andare, assieme allo swâmî, a vivere in India (faranno più tardi costruire un monastero nell'Himâlaya). Una giovane direttrice di scuola incontra il conferenziere indiano in casa di amici, poi lo fa parlare davanti alle sue allieve: ne è talmente affascinata che decide, a ventotto anni, di accompagnarlo in India. Prenderà il nome di Nivedita (colei che è consacrata), e sarà la prima donna occidentale accolta in un ordine monastico dell'India.

Vivekânanda, ammalato, va a riposarsi in Svizzera insieme ai Servier. Invitato dal grande indologo Paul Deussen, che vive a Kiel, visita la Germania, di cui ammira la potenza materiale e l'alta cultura. Ha interessantissimi colloqui con Deussen, che l'accompagna ad Amburgo, ad Amsterdam, a Londra. Conclude la sua visita dell'Europa con una rapida traversata dell'Italia, dove scopre la grandezza di Roma, e condivide la venerazione del popolino per le immagini della Vergine Madre e del Bambino.

Durante il ritorno in India, è oggetto di splendidi ricevimenti quando passa da Colombo il 15 gennaio 1897, poi soprattutto a Madras e a Calcutta. Al suo popolo lancia un messaggio invitandone la risurrezione: «India, sorgi!».

Si reca a visitare i discepoli di Râmakrishna, che avevano trasportato il loro monastero da Barânagore ad Alambâzâr, presso Dakshineshwar. Ad essi proibisce di pensare alla loro salvezza personale, esige che consacrino soprattutto i loro sforzi a lottare contro la miseria e ad educare le masse. Insieme ad essi, il 1° maggio 1897, fonda la Missione Râmakrishna, destinata a conservare lo spirito del Maestro, a lavorare al benessere materiale e spirituale delle masse, a creare uno spirito di mutuo aiuto e di simpatia fra l'India e l'estero, a realizzare la fraternità tra gli adepti delle diverse religioni, «forme diverse di una sola Religione eterna».

Per ispezionare le opere da lui fondate, fa un secondo viaggio in Occidente; dal luglio al dicembre 1900, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Austria; poi, dal dicembre 1900, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Balcani, Costantinopoli, Grecia, Egitto.

Dal 1° agosto al 24 ottobre 1900 visita la Francia, cioè Parigi e la Bretagna. Prende la parola in francese ad un Congresso della Storia delle Religioni, tenuto a Parigi, in occasione dell'Esposizione universale. Dedica la maggior parte del suo tempo alle chiese ed ai musei, allo scopo di approfondire la conoscenza della religione e dell'arte francesi. Così conclude le sue esperienze: «Parigi è il centro e la sorgente della cultura europea, il focolare di libertà che ha infuso nuova vita all'Europa».

Rimpiange, tuttavia, di aver visto l'intera Europa trasformata in «un vasto campo militare».

Tornato in India, ammalato, colpito contemporaneamente di diabete e d'idropisia, trascorre la maggior parte dei pochi mesi che gli rimangono da vivere nel monastero di Belur, dove, circondato di animali domestici, conduce una vita campestre. Ha la grande gioia di ricevere la visita del più famoso filosofo giapponese contemporaneo, Okakura, assieme al quale andrà a rivedere per l'ultima volta Benares.

Il 4 luglio 1902, si alza di buon'ora, va a meditare tre ore solo in cappella, canta un inno da lui composto in onore di Kâlî, mangia di buon appetito, tiene per tre ore lezione di sanscrito ai novizi, poi passeggia a lungo, s'intrattiene con i monaci, si stende, alla loro presenza, sul pavimento e muore, all'età di trentanove anni.

I discepoli che, l'indomani, lo portano al rogo, lanciando grida di vittoria, sono convinti che la sua morte sia stata l'atto estremo della sua potente volontà.

Râmakrishna, in tutte le religioni, in tutte le filosofie sufficientemente profonde, aveva scoperto, attraverso un'intima esperienza, il Dio unico. Il suo grande discepolo farà scendere sulla terra questo sublime ideale. Egli affermerà l'unità della specie umana e, da tale affermazione, trarrà tutte le conseguenze. All'America ed all'Europa, predicherà la Religione universale; all'India, l'azione sociale.

Il punto di partenza delle sue concezioni, il centro dal quale derivano ed al quale ritornano i suoi pensieri è l'idea di Dio.

«La parola Dio è stata applicata, da tempo immemorabile, all'espressione del concetto dell'Intelligenza cosmica e di tutto quanto vi è connesso di grande e di santo... Milioni di anime umane l'hanno identificata con tutto ciò che esiste di più alto e di migliore, con tutto ciò che è razionale, con tutto ciò che è degno di essere amato, con tutto ciò che è eroico e sublime nella natura umana».

Secondo Vivekânanda «Dio è la somma totale dell'Intelligenza manifestata nell'universo... Tutte le varie forme di energia cosmica, come Materia, Pensiero, Forza, ecc., sono le manifestazioni di questa Intelligenza cosmica».

Dio è immediatamente conoscibile. «Per vedere questa sedia, voi vedete dapprima Dio, poi la sedia, in Lui e attraverso Lui».

L'universo è Dio percepito attraverso la Mâyâ, dicono gli Indù; attraverso lo spazio, il tempo e la causalità, dicono gli Europei, discepoli di Kant. L'universo è un giuoco divino. «Non conosco concezione di Dio più sublime di questa: Egli è il Primo Poeta, il Poeta Sovrano. L'universo intero è il suo Poema, in rime e ritmi, scritti nell'infinita felicità».

Egli è l'Assoluto Impersonale, brahman, così com'è il Dio personale, Îshvara, ed anche Kâlî, la Madre.

Egli è in ciascuno di noi. Egli è ciascuno di noi, dietro le apparenze; l'uomo reale dietro l'uomo apparente; il grande Io dietro il piccolo io.

Vivekânanda riprende l'antica similitudine dell'onda e del mare. «Non c'è un'onda che sia in realtà diversa dal mare: che cosa produce quest'apparente diversità? Il nome e la forma; la forma dell'onda e il nome che le diamo. Ecco ciò che la differenzia dal mare. Quando scompaiono il nome e la forma, è sempre lo stesso mare. Chi potrebbe stabilire una qualunque differenza reale tra l'onda ed il mare? Così tutto questo universo è questa Sola Esistenza Unica... Non esiste che un Âtman, che un Io, eternamente puro, eternamente perfetto, immutabile, che non è mai stato mutato, che non ha mai mutato, e tutti questi diversi mutamenti nel mondo sono solamente apparenze di questo Io unico».

In che modo il piccolo io potrà scoprire nel fondo di se stesso il grande Io? come potrà l'uomo arrivare ad amare Dio, a penetrare in Lui?

Possiamo seguire strade diverse, che conducono tutte alla medesima meta. Per yoga intenderemo qui l'unione con Dio ed il mezzo per arrivarvi. Ci sono yoga diversi che, d'altra parte, non sono in contraddizione gli uni con gli altri. Possono anzi prendere l'uno dall'altro alcuni procedimenti.

Comunque, nessuno di essi è contrario alla ragione. «Con quale diritto ci rifiuteremmo di usare del massimo dono di Dio?».

Si può conquistare la salvezza praticando uno solo dei quattro yoga, oppure due o tre, oppure tutti e quattro. Da questo punto di vista non c'è da stabilire fra di essi nessuna gerarchia.

Tuttavia i commentatori di questa filosofia, non li hanno classificati sempre nello stesso ordine. Una frase di Vivekânanda, nella sua conferenza del 24 giugno 1895 a Thousand Island Park, permette di proporre una soluzione del problema. C'è la strada del lavoro (Karma-Yoga), la strada della concentrazione (Râja-Yoga), la strada della conoscenza (Jñâna-Yoga), la strada dell'adorazione (Bhakti-Yoga).

Solamente degli sciocchi hanno potuto considerare inferiore la strada del lavoro, il Karma-Yoga.

La parola karma non è presa nella sua concezione metafisica, per la quale indica gli effetti di cui le azioni da noi compiute in precedenti esistenze sono le cause. Viene applicata qui all'azione stessa, a tutte le forme di lavoro.

«Se proprio volete farvi un'idea del carattere di un uomo, non considerate le sue opere grandi. Il primo sciocco che passa può, in un istante della sua vita, comportarsi da eroe. Guardate piuttosto come un uomo compie le azioni più comuni: esse vi riveleranno il vero carattere di un grande uomo... Gli uomini di grande volontà che il mondo ha generati furono grandi lavoratori, anime di giganti, con volontà così potenti da sollevare dei mondi».

Senza disprezzare gli aspetti più umili della fatica umana, abbiamo il diritto di proclamare la superiorità del lavoro compiuto per amore del lavoro in se stesso, secondo la dottrina della Gîtâ. Colui che meglio lavora, agisce senza alcuno scopo; non lavora né per il denaro, né per la gloria, nemmeno per conquistare il cielo. L'azione compiuta sotto l'influenza di uno di questi scopi, sempre più o meno egoistici, ci lega una palla al piede. Il vero karma-yogin, invece, agisce in tutto disinteressatamente, e per ciò stesso si libera. Il Buddha è stato il «karma-yogin ideale».

«Anche se l'uomo non ha mai studiato alcun sistema di filosofia, anche se non crede né ha mai creduto ad un Dio, anche se non ha mai pregato nemmeno una sola volta nella vita, anche in questo caso, se il solo potere delle buone azioni l'ha portato a quello stato in cui è pronto a dare la vita, a dare tutto per il prossimo, egli è giunto allo stesso punto al quale è arrivato l'uomo religioso attraverso le preghiere ed il filosofo attraverso la conoscenza; vedete così come il filosofo, il lavoratore ed il devoto si ritrovino tutti su uno stesso punto, che è l'abnegazione».

«Il Karma-Yoga è un sistema etico e religioso il cui scopo è quello di farci raggiungere la libertà attraverso l'altruismo e le opere buone».

Il Karma-Yoga, come pure gli altri due yoga di cui tratteremo più avanti, può prendere alcuni procedimenti da un altro yoga, lo Yoga regale (Râja-Yoga), che Vivekânanda definisce anche Yoga psicologico: è la strada della concentrazione. Infatti, la concentrazione può avere la sua parte in tutti gli sforzi compiuti in vista dell'unione con Dio.

«La scienza del Râja-Yoga si propone di offrire all'umanità un metodo pratico e scientificamente elaborato per giungere alla verità». La parola verità indica qui la scoperta del Dio nascosto dietro le apparenze dell'universo; Dio al quale lo yogin si congiunge.

Vivekânanda si ispira qui ad un grande e remoto predecessore, Patañjali, del quale ha commentato gli Aforismi sullo Yoga. La traduzione di quest'opera e del commento accompagna, generalmente, il Râja-Yoga di Vivekânanda, una delle poche opere scritte dal Maestro per essere pubblicata (la maggior parte delle altre opere è formata da conferenze e colloqui, raccolti dai suoi discepoli).

Secondo Patañjali «lo yoga consiste nell'impedire al contenuto mentale di assumere diverse forme». Queste forme sono le onde che agitano il lago del nostro spirito (o contenuto mentale), e impediscono così di vedere il fondo, il nostro vero Io.

«Se l'acqua è limpida, e se non ci sono onde, vedremo il fondo».

Tale sforzo verso la concentrazione, comporta alcune condizioni preliminari d'ordine sociale e d'ordine psicologico. «La ricchezza troppo grande e la troppo grande povertà sono pesanti ostacoli allo sviluppo superiore». Le classi medie costituiscono un ambiente più favorevole. «Lo yogin deve evitare i due estremi del lusso e dell'austerità. Non deve né digiunare né torturare la sua carne... Né colui che mangia troppo né colui che digiuna, né colui che si priva del sonno né colui che dorme molto, né colui che lavora troppo né colui che non lavora, possono essere degli yogin».

Il Râja-Yoga comprende otto tappe, che è bene percorrere «sotto la guida personale di un maestro». Senza tale sorveglianza, alcuni esercizi potrebbero avere dannose conseguenze fisiche, intellettuali o morali.

La prima tappa (yama) è la pratica di alte virtù morali: innanzi tutto il non-nuocere (ahimsâ), che consiste nel non far del male a nessun essere vivente; poi la sincerità assoluta, la perfetta castità, l'assenza totale di desiderio, il rifiuto di ogni regalo (quest'ultima prescrizione può stupire: ma si spiega se consideriamo che agli oggetti materiali sono attaccati dei pensieri; di conseguenza, «ad ogni regalo che accettiamo, corriamo il rischio di prendere anche quanto vi è di cattivo presso il donatore»).

La seconda tappa (niyama) ha lo scopo di dare buone abitudini regolari: pulizia, o purificazione del corpo, e purificazione dello spirito; austerità ed allegrezza («per lo yogin, tutto è piacere, ogni viso umano gli dà gioia; da ciò riconosciamo un uomo virtuoso»); studio dei testi sacri e adorazione di Îshvara.

La terza tappa (âsana) mira all'adozione di posizioni favorevoli alla meditazione.

La quarta tappa (prânâyâma) è particolarmente importante: si tratta di controllare il prâna, cioè l'energia cosmica che, nell'uomo, diventa energia vitale. Il mezzo principale è l'azione sulla respirazione (inspirazione, ritenzione dell'aria, espirazione sapientemente regolate).

Nel corso della quinta tappa (pratyâhâra), lo yogin distoglie dal mondo esteriore gli organi dei sensi.

Nella tappa seguente (dhâranâ), egli concentra lo spirito su alcuni punti determinati (una parte del corpo, oppure un'idea).

La penultima tappa (dhyâna), è la meditazione propriamente detta, nella quale lo spirito «scorre verso un solo punto in un flusso ininterrotto».

Finalmente c'è il samâdhi, lo stato di sopracoscienza, in cui scompare ogni sentimento dell'«io»: l'uomo ne esce trasformato, illuminato; «un saggio, un profeta, un santo».

Affine al Râja-Yoga, ma più intellettualizzato, è lo Jñâna-Yoga: la strada della conoscenza.

Come punto di partenza, ecco questa affermazione decisiva: «L'esperienza è la sola fonte della conoscenza». Ed ancora: «Meglio non credere che non aver sentito». Beninteso si tratta qui di un'esperienza interna, di ciò che è stato definito l'esperienza religiosa. Essa prende posto accanto all'esperienza esterna, all'esperienza scientifica.

«Scienza e religione sono due tentativi paralleli per aiutarci ad uscire dalla schiavitù... La religione si occupa delle verità del mondo metafisico, proprio come la chimica e le scienze naturali si occupano delle verità del mondo fisico».

In ambedue i casi, si tratta di una lotta. «L'uomo è uomo in quanto lotta per elevarsi al di sopra della natura: e questa natura è nello stesso tempo interiore ed esteriore. Non soltanto essa comprende le leggi che governano le particelle materiali in noi e fuori di noi, ma anche quella natura più sottile al di dentro, che costituisce, di fatto, la forza motrice che governa l'esterno. È cosa buona, è cosa grande conquistare la natura esteriore. È ancor più grande conquistare la natura interiore. È cosa grande, è cosa buona conoscere le leggi che governano le passioni, i sentimenti, la volontà dell'umanità. E ciò rientra nell'ambito della religione».

La religione è più antica della scienza; e al credente essa sembra più santa.

Il primo compito è piuttosto d'ordine negativo. Si tratta di analizzare lo spirito, che, distinto dall'anima profonda, è considerato come facente parte del mondo materiale; di scomporre il meccanismo delle percezioni e delle idee; di criticare le condizioni della conoscenza, tempo, spazio, causalità; di riconoscere le frontiere dell'intelligenza prima di superarle.

Esse saranno valicate nel corso di una seconda tappa. «La religione procede fondamentalmente da una lotta per trascendere le limitazioni dei sensi. In tutte le religioni organizzate, i fondatori hanno affermato di esser penetrati in regioni dello spirito dove si erano trovati di fronte ad un nuovo ordine di fatti, riferentisi a ciò che viene definito regno spirituale. Tutte le religioni affermano che lo spirito umano trascende, in alcuni momenti, non soltanto le limitazioni dei sensi, ma anche le ordinarie facoltà del ragionamento».

A questo punto ritroveremmo le tre ultime tappe del Râja-Yoga: dhâranâ, dhyâna e samâdhi.

E si arriverebbe «alla scoperta dell'Unità, dell'Uno universale, totale Essenza e sola Realtà».

Per Vivekânanda il cuore è al di sopra dello spirito. In fondo, l'intelligenza ha soprattutto lo scopo di sgomberare la strada davanti al cuore che, solo, può unirsi a Dio.

Sebbene egli desideri mettere tutti gli yoga sullo stesso piano, si sente in lui una segreta preferenza per il quarto yoga, il Bhakti-Yoga, la strada dell'adorazione.

Su questa strada, è cosa pericolosa credere al valore di un insegnamento ricevuto dal di fuori, proveniente da un ambiente esterno all'individuo. «Quanti bei germi, che sarebbero diventati stupende verità spirituali, sono soffocati da quest'orribile idea di una religione di famiglia, di una religione nazionale, di una religione sociale! Io solo devo istruire me stesso in religione».

Le Chiese non devono intervenire nella vera religione, che è un diretto rapporto tra l'anima e Dio. La «preparazione religiosa» è una «abominazione». Alcuni devoti, che parlano di religione senza mai desiderare Dio, sono degli «atei religiosi», assai inferiori a quegli «atei sinceri» che sono i materialisti.

«II Bhakti-Yoga è una vera e sincera ricerca del Signore, una ricerca che comincia, continua e si conclude nell'Amore».

Dobbiamo, dapprima, sentire la «forza interiore» che «ci spinge avanti verso l'amore: noi non sappiamo dove cercare l'oggetto vero, ma ogni amore ci spinge più avanti nella ricerca. Ogni volta, scopriamo il nostro errore». Giacché «l'amore non può esistere né per un oggetto limitato né presso un soggetto limitato».

Gli amori che precedono l'amore per Dio non sono che delle tappe. «Dovunque sia qualche amore il Signore è presente. Egli è nel bacio dell'amante e dell'amata, della madre e del figlio, nel dono dell'amico all'amico, nel sacrificio dell'uomo all'umanità». Prima di giungere a questo ideale di «vedere Dio in ogni cosa», possiamo vederlo nell'oggetto che preferiamo, poi in un altro, e procedere così a piccoli passi.

Strada facendo, superiamo ogni timore, ogni dubbio, ogni desiderio di prove o di ricompense, ogni interesse.

«Dio è lo scopo della vita. Nulla esiste al di fuori di Dio».

Bisogna arrivare all'«amore per amore dell'amore». Allora «l'Amore, l'Amante e l'Amato sono una cosa sola».

L'Amore appare come la grande forza cosmica. «L'Amore fa girare vorticosamente i mondi e unisce gli atomi agli atomi, fa gravitare i grandi astri gli uni verso gli altri. L'Amore è la legge d'attrazione fra l'uomo e la donna, tra i popoli, tra gli animali, nell'universo intero attratto verso il centro... Dalle molecole più infinitesime fino all'essere più grande, l'Onnipresente, Colui che riempie tutto, è l'Amore».

Il bhakta, in un'estasi suprema, s'identifica con l'Unità. Poi, dopo aver raggiunto la sopracoscienza, torna ad una forma meno eccezionale di adorazione, ad un puro amore sciolto da ogni interesse e da ogni desiderio.

Per finire, riunendo due degli yoga da lui studiati, Vivekânanda raccomanda di «adorare Dio con una bhaktì temperata di jñâna».

Il grande discepolo di Râmakrishna non aspira ad alcuna originalità nell'esposizione di queste idee, che esprime con una commovente eloquenza, sui mezzi per raggiungere l'Unità divina. Riguardo a questo problema, come riguardo a tutti gli altri soggetti che tratta, non confessa altra ambizione che quella di esporre chiaramente le tesi del Vedânta, e più precisamente quelle dello stretto monismo che è l'Advaita. Gli faceva piacere affermare: «Io sono Shankara».

Uno dei suoi massimi sforzi, è quello di stabilire che il Vedânta risponde perfettamente alle esigenze scientifiche e morali del diciannovesimo secolo.

A suo parere, l'Advaita di Shankara, come, ancor prima, il monismo assoluto delle Upanishad, è in perfetto accordo con le tesi fondamentali della scienza moderna. È «la religione più scientifica», anzi «la sola religione scientifica».

L'Advaita e la scienza sono d'accordo nel cercare la causa delle cose non al di fuori di esse, ma nella loro stessa natura. «Questo Universo non è stato creato da un Dio extracosmico, ma non è neppure l'opera di un genio esteriore. Il brahman è l'Esistenza unica ed infinita, che si crea, si dissolve e si manifesta».

D'altra parte, in molte sue opere, specialmente in un'importante conferenza sul Vedânta, Vivekânanda sviluppa eloquentemente la tesi che il Vedânta advaita di uno Shankara sia la sola dottrina che spieghi in modo soddisfacente il problema della morale:

«Per quale ragione sarei morale? È un fatto che non si può spiegare a meno di arrivare ad affermare la verità che ci insegna la Gîtâ: Colui che vede ogni altro essere in sé, e se stesso in ogni altro essere, vedendo in tal modo lo stesso Dio vivere in tutti, costui, il saggio, non uccide più l'Io per mezzo dell'io. Dall'Advaita imparate che chiunque voi colpirete, colpite voi stessi: tutti sono voi. Lo sappiate o no, lavorate con tutte le mani, camminate con tutti i piedi, siete il re che siede in trono nel suo palazzo, ed il mendicante che trascina per le strade la sua vita miserabile; siete nell'ignorante allo stesso modo che nel sapiente; siete nell'uomo che è debole e siete in colui che è forte; sappiatelo e mostrate della simpatia. Ecco la ragione per cui non dobbiamo fare del male al prossimo... Io non dovrei preoccuparmi di ciò che mi accade né di quanto mi appartiene, poiché tutto l'universo è mio. Io godo contemporaneamente di tutta la beatitudine... Solamente nell'Advaita la moralità è spiegata. Le altre teorie la insegnano, ma non possono spiegarne la ragione».

Se fosse vero che il Vedânta soddisfa tutte le esigenze del pensiero moderno, dovrebbe logicamente poter esercitare qualche influenza anche in Europa ed in America.

«Bisognerà anche in questi paesi portare dall'India qualche concezione advaita. Alcune già vi sono penetrate; dovranno crescere e svilupparsi per salvare le loro civiltà. In Occidente, infatti, l'antico stato di cose scompare; esso cede il posto ad un ordine nuovo, che è l'adorazione dell'oro, il culto di Mammona. Il vecchio rozzo sistema della religione era migliore del sistema moderno: oro e concorrenza. Nessun popolo, per quanto potente, può sussistere su tali basi. La storia del mondo ci insegna che tutto ciò che fu costruito su tali basi, è morto e scomparso. Innanzi tutto bisogna impedire l'arrivo di una simile onda in India. Predicate dunque l'advaita a tutti, affinché la religione possa resistere agli assalti della scienza moderna... Dovete anche aiutare il prossimo: il vostro pensiero aiuterà l'Europa e l'America».

L'Advaita presenta ancora un altro vantaggio. Facendo di Dio l'insieme di tutto ciò che esiste, esso può accettare, riconoscendovi aspetti frammentari della verità, tutte le altre concezioni religiose. Può quindi dare al mondo l'idea di una Religione Universale.

In passato, le religioni, a causa della loro intolleranza, hanno provocato immensi mali, versato fiumi di sangue. Alcune di esse, infatti, pretendevano a torto di essere le sole vere, le sole stabilite da Dio». Se Dio avesse voluto che tutto il mondo seguisse una stessa religione, perché ne avrebbe fatto nascere un numero così grande?» - «Se un Creatore, che è Tutta-Saggezza e Tutto-Amore, avesse voluto che una di queste religioni prevalesse e che le altre scomparissero, ciò sarebbe avvenuto ormai da lungo tempo».

La Religione universale dovrà essere conforme alla ragione. «Non è forse una spaventosa bestemmia il credere contro la ragione? Sono certo che Dio perdonerà a colui che, servendosi della ragione, non crederà, piuttosto che a colui che crede ciecamente, senza servirsi delle facoltà che Egli gli ha date... Se la ragione è debole, una compagnia di preti sarà ancor più debole, ed io non accetterò il loro verdetto; ma invece mi atterrò alla mia ragione, perché, pur con tutte le sue debolezze, esiste qualche possibilità per me di arrivare, attraverso di essa, alla verità... La gloria dell'uomo è nel pensiero». «La salvezza dell'Europa dipende da una religione razionalista».

La religione dell'avvenire si riconcilierà con la scienza. Essa riavvicinerà filosofia e poesia. Soddisferà lo spirito come il cuore. «Unirà l'intelligenza di Shankara e il cuore del Buddha».

Essa non condannerà nessuna delle religioni anteriori. «Io accetto tutte le religioni del passato, e con tutte adoro Dio, - dichiara Vivekânanda -. Lascio il mio cuore aperto a tutte quelle dell'avvenire. Il Libro delle Rivelazioni non è compiuto. È un libro meraviglioso. La Bibbia, i Veda, il Corano, tutti gli altri libri sacri non ne sono che poche pagine, e un numero infinito di pagine resta da sfogliare. Vorrei che questo Libro fosse aperto a tutte le pagine!... Salute, a tutti i profeti del passato, a tutti i grandi del presente, e a tutti quelli che verranno!».

E ancora: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno, è uno spirito di fraternità tra i diversi tipi di religione, giacché tutte insieme esse trionferanno o soccomberanno».

Fondata da Vivekânanda, la Missione Râmakrishna ha come scopo «l’affermarsi della fraternità fra gli adepti delle diverse religioni, per mezzo della conoscenza che tutte sono altrettanto forme differenti di una sola Religione eterna».

Questo Vedânta, che ci guida fino alle vette del pensiero e del sentimento, Vivekânanda si sforza pure di farlo scendere nei particolari della vita pratica, individuale e sociale.

Egli insiste perché, innanzi tutto, noi ci sentiamo forti e liberi. Il male si può riassumere in questa parola: debolezza. È spiacevole credersi un povero essere debole, votato al male ed al peccato. Dobbiamo far agire l'auto-suggestione in un senso tutto contrario. Dobbiamo persuaderci che portiamo Dio in noi: «Tu sei Ciò».

«Voi siete l'Io, il Dio dell'Universo. Dite: Io sono Esistenza assoluta, Beatitudine assoluta, Conoscenza assoluta. Io sono Lui. E, come un leone che spezza le sbarre della gabbia, spezzate le vostre catene e siate liberi per sempre!».

Liberi, potremmo essere eternamente felici. La maggior parte degli uomini va per il mondo come se fosse inseguita da un poliziotto senza fermarsi a contemplare la bellezza della natura. L'universo appare come una prigione, dove alcuni affamati lottano per un boccone di pane. Bisognerebbe vedervi piuttosto un campo di gioco. Giacché, in fondo, la vita è un gioco. «Tutto è gioco». Già l'abbiamo visto: la virtù dello yogin si riconosce dal fatto che «tutto è per lui piacere», e che «ogni volto umano gli dà gioia». «Com'è bello questo mondo»!

«Secondo una vecchia leggenda indiana, se si pone davanti ad un râja-hamsa (cigno reale) una tazza di acqua e latte, esso berrà tutto il latte e lascerà l'acqua». Nella vita possiamo assaporare tutto ciò che ha valore, e non prestare alcuna attenzione ai particolari spiacevoli.

L'uomo può così conquistare la beatitudine. Può essere beatitudine.

All'esaltazione della forza gioiosa Vivekânanda unisce il tema dell'abnegazione, della devozione a tutti. Le due idee non sono in contrasto; al contrario: «i nostri soli momenti di vera vita sono quelli in cui viviamo nell'Universo, negli altri». E le due virtù sgorgano dalla stessa sorgente: la scoperta di Dio nell'uomo.

«La morale ci dice: Non io, ma tu! Il suo motto è: Non l'io, ma il non-io!... Solamente per ultimo devo pensare a me... La rinuncia è la base sulla quale poggia la morale».

Dobbiamo servire Dio in tutti gli esseri, in tutti gli uomini, soprattutto in quelli che hanno più bisogno di noi. Dio è, prima di tutto, l'insieme dei miserabili.

Questo Vedânta pratico conduce necessariamente all'azione sociale. Pur rifiutandosi di partecipare alla politica propriamente detta, Vivekânanda insiste sull'importanza dello sforzo per sollevare i miseri, che sono innumerevoli, nell'India del suo tempo.

Ad un giovane bengalese che si chiudeva nella sua stanza per arrivare a trovare la pace dell'anima, egli consiglia di spalancare la porta e di guardarsi intorno: «Ci sono centinaia di persone miserabili in prossimità della tua casa. Tu le servirai del tuo meglio. Uno è malato: lo curerai. Un altro è affamato: lo nutrirai. Un terzo è ignorante: lo istruirai. Se vuoi la pace dell'anima, servi gli altri!».

Al suo ritorno dall'America, nel 1897, egli dichiara in un tono particolarmente violento: «Che importa che ci sia il cielo o l'inferno, che ci sia un'anima o che non ci sia! Ecco il mondo: è pieno di miseria. Andate in questo mondo, come il Buddha, e sforzatevi di diminuire questa miseria, o morite in questo sforzo! Dimenticate voi stessi! Questa è la prima lezione da imparare, che voi siate teisti od atei, agnostici o vedantini, oppure cristiani, o maomettani!»

Egli fa sua una frase terribile di Râmakrishna:

«La religione non è fatta per i ventri vuoti», e arriva ad esclamare: «Fin quando un solo cane nel mio paese sarà senza cibo, nutrirlo sarà tutta la mia religione».

E ancora: «Prima il pane, poi la religione. Noi rimpinziamo i poveri con troppa religione, mentre hanno fame».

Ad un'amica americana scrive: «Sono partigiano del socialismo, non tanto perché in esso veda un sistema perfetto, ma perché è meglio aver poco che niente del tutto».

Nello stesso tempo continua a proibire ai suoi discepoli di abbassarsi partecipando ad una politica attiva.

Parlando con i suoi monaci poco prima di morire, chiedendosi da che cosa dipendano la grandezza e la decadenza delle nazioni, egli dichiara: «L'India è immortale se persiste nella ricerca di Dio. Ma se essa entrerà nella politica e nelle lotte sociali, soccomberà».

In tal modo lo scopo finale è sempre quello di condurre tutti gli uomini alla salvezza. «Dobbiamo trascinare l'intero universo con noi verso la salvezza... Felicità senza pari! l'Io realizzato in ogni essere che respira e in ogni atomo dell'universo!»

Ecco l'ideale di Vivekânanda espresso in questo poema in bengali:

«Placati i clamori della carne esigente;

Sedato il tumulto dello spirito orgoglioso;

Distese, distaccate le corde del corpo;

Sciolti i vincoli che incatenano;

Attaccamento, illusione più non esistono.

Sì! là, risuona il Suono

Vuoto di vibrazioni! In Verità, la Tua Voce!»


Félicien Challaye
da : Les philosophes de l’Inde, PUF, 1956, tr. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell’India, SAIE, Torino, 1959, capitolo XIII.
Trascrizione elettronica e revisione di Dario Chioli