Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai alla sezione

Ramakrishna

II grande ideale umano che animava il Brâhma-Samâj ebbe, in India, altri notevoli rappresentanti: in primo luogo una personalità straordinaria, di forte originalità, grande bizzarria, intenso fascino: Râmakrishna. I suoi genitori, i Cattopâdhyâya, erano brâhmana, di stretta ortodossia e di estrema povertà. Capitava che sua madre digiunasse un giorno intero per poter soccorrere un povero.

Colui che sarà più tardi Râmakrishna, e al quale i discepoli daranno il titolo onorifico di Shrî, che esprime l'eccellenza di una straordinaria personalità, si chiamava originariamente Gadâdhar. Nacque in un villaggio del Bengala, Kâmârpukur, il 18 febbraio 1836. Una leggenda gli attribuisce il privilegio di una immacolata concezione.

Aveva sette anni quando gli morì il padre. Il fratello, per mantenere la poverissima famiglia, aprì una scuola a Calcutta. Gadâdhar vi fu educato. Ma ben presto gli studi che vi si facevano lo disgustarono. Ebbe la sensazione che questo insegnamento avesse il solo scopo di migliorare la vita materiale dei maestri e dei discepoli. Egli si interessava soltanto alle cose della religione. La famiglia decise di fare di lui un prete.

Una donna ricca e generosa, ma appartenente alla casta inferiore degli shûdra, aveva fondato, a sei chilometri da Calcutta, sulla riva sinistra del Gange, in un luogo chiamato Dakshineshwar, un tempio consacrato alla gran dea Kâlî, la Madre Divina, vasto edificio a cinque cupole con guglie, in un bel giardino. Per questo tempio, ella cercava un assistente. In India, dove i monaci erranti sono particolarmente onorati, la posizione del prete addetto ad un tempio è poco considerata: viene rimproverato a questi religiosi, che si lasciano rimunerare per tale compito, di far commercio di cose sacre. Gadâdhar era così povero che dovette accettare questa posizione, per umiliante che fosse.

Immediatamente, egli provò un amore appassionato per la dea alla quale l'assistente doveva dedicare le sue cure, destandola, vestendola, portandole cibi e fiori, svestendola, coricandola. Tuttavia un dubbio sorse in lui: esiste veramente al mondo una simile Madre di Beatitudine? Un giorno dopo l'altro egli si poneva questo grave quesito. A poco a poco trascurò il servizio nel tempio. Si ritirò a vivere in un boschetto vicino, meditando, piangendo. Aveva perduto ogni nozione di sé, sarebbe morto di fame se un suo cugino non fosse venuto a mettergli in bocca un poco di cibo. Un giorno benedetto, ebbe finalmente l'estasi che intensamente desiderava: «In me - disse più tardi ai suoi intimi - scorreva un oceano di gioia ineffabile. Fino al profondo, ero consapevole della presenza della Divina Madre». Kâlî, ormai, dirigerà tutta l'esistenza del suo fedele; gli confiderà, in alcune visioni, stupende rivelazioni.

Il giovane prete ricominciò a servire la dea nel suo tempio, secondo i riti, compiendo regolarmente il suo compito. Un giorno, mentre dalla terrazza contemplava il Gange, vide scendere da una barca una donna di circa trentacinque anni, alta e bella, vestita dell'abito ocra rossa che distingueva i sannyâsin (uomini o donne che hanno rinunciato al mondo). Appena ella vide Gadâdhar, gli disse piangendo: «Figlio mio, ti cercavo da tanto tempo».

Era una brâhmanî, di nobile famiglia e di eccezionale cultura. È conosciuta soltanto sotto il nome di Bhairavî Brâhmanî, la Suora Brâhmanî. Ella decise di essere la madre spirituale del giovane prete, visse presso di lui parecchi anni (tre anni secondo alcuni testi, sei secondo altri). Gli fece conoscere tutti i sistemi filosofici dell'Induismo, tutti i procedimenti dello Yoga, il vero significato della bhakti (l'adorazione religiosa). Ella riconobbe in Gadâdhar un nuovo avatâr, una nuova incarnazione del Divino.

Verso la fine del 1864, passò da Dakshineshwar uno strano monaco errante, Totâpurî (l'Uomo tutto nudo). Egli aveva fatto voto di non fermarsi mai più di tre giorni nello stesso posto; ma, date le circostanze, capì che valeva la pena di trasgredire al voto. Si fermò undici mesi. Offerse al prete di insegnargli il Vedânta nella sua forma più alta, quella dell'Advaita. Gadâdhar chiese ed ottenne da Kâlî l'autorizzazione a ricevere questo insegnamento. Totâpurî diventò il suo «guru vedantico». Gli conferì l'iniziazione nell'ordine dei sannyâsin, gli fece lasciare il nome ricevuto dai genitori, lo chiamò Râmakrishna. (*) A questi due nomi [Râma e Krishna], che evocavano le splendide incarnazioni umane del dio Vishnu, aggiunse quello di Paramhamsa (l'aquila che vola). Poi partì misteriosamente com'era venuto.

(*) N.d.C. - Cfr. Isherwood, Râmakrishna e i suoi discepoli, p. 61: “ non si sa esattamente come e quando Gadâdhar avesse ricevuto quel nome. Su questo punto ci sono tre ipotesi. Secondo la prima erano stati i genitori… Questa congettura è molto dubbia; fatto sta che Gadâdhar, anche se possedeva un altro nome sin dall’infanzia, non veniva mai chiamato diversamente. La seconda ipotesi, avanzata da Sâradânanda, sostiene che Gadâdhar avesse ricevuto quel nome dal monaco Totâ Purî al momento della sua iniziazione… In base alla terza ipotesi – che è anche quella più accreditata – Gadâdhar venne chiamato per la prima volta Râmakrishna da Mathur Mohan, il genero di Rânî Rasmanî ”.

Râmakrishna era allora un ometto bruno, magro, nervoso e fragile, con la barbetta, gli occhi obliqui un poco legati, un sorriso affettuoso e malizioso. Il suo viso, in alcune fotografie, dà l'impressione d'una maschera barbuta che potrebbe simboleggiare la benevolenza.

Ora egli era iniziato alle più alte speculazioni dell'India. Aveva voluto, per un certo tempo, condurre la vita dei fedeli appartenenti a questa o quella setta particolare, adoratori di Vishnu o di Râma. Aveva scoperto che, sotto nomi diversi, era onorato lo stesso dio.

Egli si chiese se la stessa verità gli si sarebbe imposta al di fuori dell'Induismo. Volle conoscere, attraverso un'esperienza intima, altre grandi religioni.

Verso la fine del 1866, dopo aver ammirato il fervore con il quale un umile musulmano era assorto in preghiera, gli domandò di iniziarlo all'Islamismo. Per parecchi giorni abbandonò il tempio di Kâlî, pregò, si vestì, si nutrì secondo l'uso maomettano, mangiò, si dice, cibi proibiti dall'Induismo, capì come si potesse aver orrore delle immagini e degli idoli. Devotamente ripeteva il nome di Allah. Un giorno, vide venirgli incontro il Profeta così come lo immaginava, personaggio serio e raggiante, dalla lunga barba, e se ne sentì penetrato.

Verso la fine del 1874, entrò in rapporto con alcuni cristiani. Per due anni, studiò la religione cristiana, si fece leggere la Bibbia da un traduttore, meditò sulla persona del Cristo. Se lo rappresentò come un Maestro Yogin, l'Amore incarnato. Un giorno, vide venirgli incontro un uomo dal viso bianco, dai grandi occhi belli, dallo sguardo sereno, che lo baciò e si fuse in lui. Capì che era il Figlio dell'Uomo, entrò in estasi, vi rimase tre giorni. Tornato allo stato normale, dichiarò che Gesù era un'incarnazione divina come Râma e Krishna. Così, dopo aver seguito lo stesso cammino dei musulmani e dei cristiani, aveva, al termine, ritrovato il suo Dio.

Talvolta, durante le sue meditazioni religiose, entrava in samâdhi, cioè in estasi: (*) le funzioni organiche si rallentavano o, temporaneamente, si arrestavano come in una specie di morte. Il suo spirito si perdeva in Dio.

(*) N.d.C. - Molti studiosi rigettano tale identificazione, ma perlopiù solo in ragione della propria ignoranza della dottrina teologica dell’estasi, la quale è altrettanto complessa di quella indù sul samadhi.

Ben presto aveva scoperto che due ostacoli si oppongono alla vita religiosa (egli allora diceva: alla visione della Madre): l'idea del sesso e l'idea del denaro. Per escludere ogni preoccupazione del sesso, si vestì e parlò, per un certo tempo, come le donne, si dedicò a lavori esclusivamente femminili: in tal modo scomparve in lui ogni assillo sessuale. In ogni donna, anche in quelle più decadute, vedeva soltanto la Madre. D'altro canto, si era proibito di toccare del danaro: perfino durante il sonno, il contatto di una moneta lo metteva in uno stato per cui la mano gli si contraeva ed il corpo era come paralizzato.

Si fece una regola assoluta della rinuncia ed anche della benevolenza verso tutti. Decise di recarsi a compiere lavori domestici nella casa di uno di quei paria di cui tutti gli Indù ortodossi devono fuggire il contatto. Poiché il paria si rifiutava, Râmakrishna si introduceva di nascosto, la notte, nella casa maledetta, e spolverava i mobili con i lunghi capelli.

La fama del santo si era sparsa sempre più, migliaia di Indiani andarono a trovarlo, per ascoltarne i consigli, purificarsi e fortificarsi al suo contatto, riceverne la benedizione. Alcuni di questi visitatori sono noti: Keshab Candra Sen, del Brâhma-Samâj, che l'invitò a partecipare alle riunioni di questo gruppo, alle quali il santo talvolta si recò; e l'attore-autore Girîsh, ateo, ubriacone e dissoluto, che, dopo una lunga resistenza, finalmente si convertì.

Intorno a Râmakrishna si era radunato un numero crescente di discepoli. Per prima, sua moglie stessa, Sâradâdevî. Quando Gadhâdar, sconvolto dalla ricerca di Kâlî, aveva fatto temere ai parenti di impazzire, i genitori l'avevano sposato, secondo l'uso indiano, ad una bimbetta di cinque anni, che continuò a vivere presso la propria famiglia. Quando la fanciulla ebbe età da marito, si recò in casa dello sposo che ne aveva dimenticato l'esistenza. Egli le spiegò che vedeva in lei, come in ogni donna, soltanto la Madre e la pregò di aiutarlo a condurre una vita di purezza. Ella acconsentì. Però, un giorno, osò esprimere timidamente il desiderio di avere dei bambini. Râmakrishna le rispose che i suoi figli sarebbero stati numerosi, sarebbero venuti a lei da ogni parte del mondo. Sâradâdevî comprese, accettò, fu per tutta la vita la pura compagna del santo, gli testimoniò una devozione meravigliosa, fu, finché visse e dopo la morte di Râmakrishna, una madre per tutti i suoi discepoli.

Dedicheremo il prossimo capitolo al più famoso di questi discepoli, Vivekânanda. Riportiamo qui solamente il suo giudizio su Râmakrishna : «Alla presenza del mio Maestro, scopersi che l'uomo può essere perfetto, perfino in questo corpo. Le labbra del mio Maestro non hanno mai maledetto nessuno, non hanno mai criticato nessuno. I suoi occhi non avevano più la facoltà di vedere il male, il suo spirito non aveva più la capacità di percepire il male. Non vedeva null'altro che il bene. Questa immensa purezza, questa immensa rinuncia è l'unico segreto della sua spiritualità».

Citiamo ancora fra i discepoli Râkhâl Candra Ghosh, che divenne più tardi Swâmî Brahmânanda, e del quale Vivekânanda diceva che era «una montagna di spiritualità». Egli fu il primo Presidente-Abate del Monastero e della Missione di cui parleremo più avanti. Raccolse e pubblicò i suoi colloqui con Râmakrishna, che apparvero in francese sotto il titolo: Les Paroles du Maître [ed. orig.: Words of the Master (Selected Precept of Shrî Râmakrishna), Calcutta, 1924].

Nell'aprile 1885 Râmakrishna si ammalò di un cancro alla gola, che gli provocò forti sofferenze. Non volle ascoltare i medici, che volevano impedirgli la parola e l'estasi. Continuò a condurre la stessa esistenza di prima con ancor maggiore distacco e serenità. Il 15 agosto 1886, benché gravissimo, ebbe la forza di parlare ai suoi discepoli per due lunghe ore, svenne, si riebbe, diede a Vivekânanda gli ultimi insegnamenti, pronunciò tre volte il nome di Kâlî, entrò finalmente nell'estasi suprema.

La dottrina di Râmakrishna non ha nulla in comune con un gioco di concetti metafisici. Essa è l'espressione di un'esperienza, o meglio di alcune esperienze privilegiate.

Nell'introduzione alla principale Vita di Râmakrishna in lingua inglese, Gândhî scrive: «Le sue parole non sono quelle d'un uomo soltanto sapiente: esse sono pagine tratte dal Libro di Vita; sono le rivelazioni delle sue personali esperienze».

Tali esperienze gli hanno rivelato l'armonia profonda del misticismo e del Vedânta; e l'armonia profonda di tutte le religioni.

All'origine della sua vita spirituale, egli fu misticamente legato alla dea Kâlî, la Madre Divina, la Madre di Beatitudine. Poi, attraverso la Suora Brâhmanî, conobbe tutti i sistemi filosofici dell'India; attraverso il suo guru vedantico Totâpurî, comprese l'importanza particolare del Vedânta.

Nel Vedânta, egli non volle scegliere tra il monismo assoluto di uno Shankara e il monismo relativo di un Râmânuja. I due punti di vista gli sembrano legittimi. Secondo lui «l'unione tra l'Indifferenziato e il differenziato è l'oggetto proprio del Vedânta».

L'Universo fa delle differenziazioni, non è irreale; e bisogna pur tornarvi, quando riprendiamo l'involucro del nostro io, al cessare del samâdhi. Eppure, ben compreso, l'Universo potrebbe essere «una fonte di gioia».

Ma, oltre il differenziato, c'è l'Indifferenziato, l'Assoluto. C'è Dio; un dio nello stesso tempo impersonale e personale, Brahman e Kâlî.

In un suo colloquio, Râmakrishna dichiara:

«Quando io penso all'Essere supremo come inattivo, che non crea, non conserva, non distrugge, lo chiamo Brahman o Purusha, dio impersonale. Quando penso a Lui come attivo, creatore, conservatore, distruttore, lo chiamo Shakti, o Mâyâ, o Prakriti, dio personale. Ma la distinzione fra i due non comporta alcuna differenza. L'impersonale ed il personale sono lo stesso Essere. Come il latte ed il suo candore. Come il diamante ed il suo splendore. Come il serpente e lo strisciare per terra. Non possiamo pensare all'uno senza l'altro. La Madre Divina e il Brahman sono Uno».

E ancora: «Kâlî non è altro che ciò che chiamate Brahman. Kâlî è Shakti, l'Energia primitiva... Quando è inattiva, chiamiamo Ciò Brahman. Ma quando Ciò è in funzione creatrice, conservatrice distruttrice, allora chiamiamo Ciò Shakti o Kâlî».

Così concepita, Kâlî può essere considerata come la divina Mediatrice tra l'Infinito e il finito. Ormai, il pensiero filosofico s'identifica con l'emozione mistica. Râmakrishna celebra in questi termini la grande dea (torneremo più avanti sulle diverse strade che egli indica per giungere fino a lei):

«Sì, la mia Santa Madre è null'altro che l'Assoluto. Essa è nello stesso tempo l'Uno ed il Molteplice, e l'al di là dell'Uno e del Molteplice... La mia Madre Santa dice: Sono la Madre dell'Universo, sono il Brahman del Vedânta, sono l'Âtman delle Upanishad... Sono io, il Brahman, che ho causato queste differenziazioni... Dirigo tutti i Karman, buoni o cattivi... Venite a me! o attraverso l'Amore (Bhakti), o attraverso la Conoscenza (Jñâna), o attraverso l'Azione (Karma), che conduce a Dio. Ed io vi guiderò attraverso questo mondo, Oceano di tutte le opere... E vi darò anche la conoscenza dell'Assoluto, se vorrete... Non potete disfarvi dell'io né di Me. Anche coloro che hanno realizzato l'Assoluto nel samâdhi, tornano a me, per mia volontà...

La mia Santa Madre è l'Energia Divina Primordiale. Essa è dappertutto. È nello stesso tempo all'interno e all'esterno dei fenomeni. Essa ha procreato il mondo. E il mondo la porta nel suo cuore. È il Ragno; e il mondo è la tela che ha tessuto. Il Ragno estrae la tela dalla propria sostanza, e poi vi si avvolge. Mia Madre è contemporaneamente il contenente ed il contenuto. Essa è il guscio. Essa è la mandorla».

In India la dea Kâlî è spesso rappresentata danzante sul corpo del dio Shiva sdraiato sotto di lei. Râmakrishna dà di questa rappresentazione simbolica una splendida interpretazione:

«Bisogna che l'umanità muoia, prima che si manifesti la Divinità. Ma questa Divinità deve morire a sua volta, prima che abbia luogo la manifestazione suprema. Sul corpo della Divinità morta, la Madre Beata danza la sua danza celeste».

La manifestazione suprema, è la realizzazione dell'Assoluto:

«La Madre onnipotente, se vuole, toglie da ogni essere creato l'ultima traccia dell'io, e lo colma della conoscenza del Dio assoluto, indifferenziato. L'ego limitato, grazie a Lei si perde nell'Io senza limiti, l'Âtman-Brahman».

Questa concezione permette a Râmakrishna di esaltare, contemporaneamente, tutti gli uomini pii che, fin dal più remoto passato, onorarono l'India, ed anche gli adepti del gruppo religioso più recente, il Brâhma-Samâj:

«Onore allo jñânin! Onore al bhakta! Onore ai devoti che credono in Dio con forma! Onore ai devoti che credono in Dio senza forma! Onore agli antichi fedeli di Brahman! Onore ai moderni fedeli del Brâhma-Samâj!».

Dopo aver affermato l'accordo di tutte le tendenze animatrici delle concezioni mistiche e filosofiche dell'India, Râmakrishna trae ancora dalla sua esperienza l'idea che tutte le religioni possano condurre a Dio; che esista, fra tutte le religioni, una profonda armonia.

«Ho praticato, - dice Râmakrishna ai suoi discepoli - tutte le religioni: Induismo, Islamismo, Cristianesimo; ed ho anche seguito le strade delle diverse sette dell'Induismo... Ho trovato che tutte, per cammini diversi, si dirigono verso lo stesso Dio... Vedo che tutti gli uomini discutono, in nome della religione... Non riflettono che Colui che è chiamato Krishna è anche chiamato Shiva, che ha nome Energia Primitiva, Gesù o Allah!

Un solo Râma che possiede mille nomi!... Il serbatoio ha molte scale. Da una di esse, gli indù attingono l'acqua nelle brocche, e la chiamano jal; da un'altra, i musulmani attingono l'acqua in otri di cuoio, e la chiamano pânî, da una terza, i cristiani, e la chiamano water. Avremmo la pretesa che quest'acqua non sia jal, ma solo pânî, o water? Sarebbe ridicolo!... La sostanza è unica, ma porta nomi diversi. E tutti cercano la stessa sostanza! mutano solamente il clima, il temperamento e il nome!».

E ancora:

«Come possiamo salire sul tetto di una casa per mezzo di una scala, di un bambù, di una scalinata oppure in altri modi diversi, così sono molteplici le strade ed i modi per arrivare a Dio. Ogni religione nel mondo è una via per raggiungerlo».

Fra tutte le religioni, fra tutte le anime religiose, dovrebbe esistere una perfetta simpatia che escluda ogni controversia sui difetti ed i rispettivi meriti delle diverse fedi.

«Non discutete sulle dottrine e sulle religioni. Ce n'è una soltanto. Tutti i fiumi vanno all'Oceano. Andate e lasciate andare gli altri!... L'acqua si scava, lungo la china, secondo le razze, le età e le anime, un letto differente. È sempre la stessa acqua!... Andate! Scorrete verso l'Oceano!».

Un Indiano che si era sentito attratto dal Cristianesimo, si era convertito a questa religione straniera ed aveva acquistato fama di santità, dopo aver conosciuto Râmakrishna, si pentì della precedente apostasia, e dichiarò di abbandonare tutto per seguirlo. Si sentì rispondere:

«No, no, segui il tuo particolare sentiero, l'unico che vada bene per te. La Luce che oggi vedi in me sarà sostituita dallo splendore più abbagliante che un giorno Essa ancora diffonderà. Segui dunque il tuo sentiero, e non fermarti fino a quando non avrai raggiunto la meta».

Allo scopo di dare un'espressione visiva alle idee di Râmakrishna, un discepolo di Keshab dipinse un giorno un quadro simbolico, nel quale, sotto gli occhi di questi due maestri, Gesù e Caitanya danzavano insieme: alcuni indù, un musulmano, un sikh, un parsi, un confuciano, un anglicano osservavano con simpatia la scena, che si svolgeva in un paesaggio sullo sfondo del quale apparivano un tempio indù, una chiesa cristiana ed una moschea.

Fu chiesto un giorno a Râmakrishna se si sarebbero viste, in avvenire, altre incarnazioni di Dio. Egli rispose affermativamente:

«Chi siamo noi per chiudere la porta dell'avvenire di fronte al Dio che si avanza? L'avvenire è una matrice feconda di sorprese: se essa può partorire demoni e bricconi, perché non produrrebbe un Dio? Egli riapparirà molte volte. Riapparirà un tempo e sotto una forma qualunque, tutte le volte che gli uomini avranno bisogno di lui».

Râmakrishna diceva ancora: «Non cercate una religione! Siate religione!».

In che modo compenetrare di religione l'intera esistenza? Non si tratta, per tutti gli uomini indistintamente, di sfuggire al mondo: «Voi state benissimo nel mondo. Rimaneteci! Non è affar vostro abbandonarlo. Voi state benissimo come siete, oro puro e lega, zucchero e melassa... In verità, poco importa che viviate in famiglia o nel mondo, se non perdete i contatti con Dio».

E ancora: «Come una donna leggera pensa segretamente al suo amante e all'ora dell'appuntamento, pur continuando a compiere i suoi doveri casalinghi; così voi, capi di famiglia, dovete assolvere tutti i vostri compiti scrupolosamente, ma tenendo fisso il cuore a Dio».

Kâlî gioca all'aquilone con le anime. Essa le tiene attaccate al mondo con il filo dell'illusione. Si diverte a lasciar fuggire alcuni aquiloni, ma solamente uno o due su migliaia.

Non bisogna aver l'assillo della purezza. «L'eccessiva preoccupazione della purezza diventa una calamità. Coloro che sono colpiti da questa malattia non hanno più il tempo di pensare né agli uomini né a Dio».

Râmakrishna rimprovera ad alcuni cristiani ed anche ad alcuni indù di «vedere nel senso di colpa tutta la religione... Essi dimenticano che il senso del peccato caratterizza solamente la prima tappa e la più bassa della spiritualità... Gli uomini non si rendono conto della forza dell'abitudine. Se voi dite eternamente: Sono un peccatore, resterete peccatori per tutta l'eternità. Dovete ripetere: Io non sono legato... Chi può legarmi? Io sono il figlio di Dio, del Re dei re... È libero l'uomo che dice: Sono libero dalla schiavitù del mondo. Sono libero. Il Signore non è forse nostro Padre? La schiavitù è nello spirito. Ma anche la libertà è nello spirito».

Applicando lo stesso metodo, egli diceva ad un discepolo che si preoccupava eccessivamente di occultismo: «Se pensi sempre agli spettri, tu sarai uno spettro. Se pensi a Dio, sarai Dio. Scegli!».

Diceva ancora: «Dio non può mai apparire là dove sono la vergogna, l'odio, la paura».

All'inizio della vita spirituale dobbiamo vincere il desiderio della ricchezza e il piacere della lussuria. L'idea del denaro e l'idea del sesso sono i principali ostacoli alla vita religiosa.

Si aprono tre vie per giungere alla Spiritualità: quella dell'amore, quella della conoscenza, quella dell'azione. Sono tutte buone. Ma bisogna che questi modi di vita non rafforzino l'egoismo; essi devono aiutare l'uomo a liberarsene; a «spogliarsi dell'io per poter provare la realtà dell'Io divino».

Dobbiamo purificare da ogni desiderio egoistico il pensiero e perfino i nostri sogni (poiché il desiderio può introdursi nell'uomo anche quando è addormentato). Dio non è un mendico affamato che si accontenta di un'offerta mediocre: l'Infinito pretende l'infinito che è nell'uomo. Dobbiamo rinunciare ad ogni ambizione, terrestre e celeste. «Se, compiendo opere buone per ambizione terrestre, già guastate la vostra anima, creata per altri fini, le farete un male ancor maggiore agendo con la speranza di ottenere le ricompense celesti. La rinuncia a se stessi è il mezzo per sottrarsi non soltanto ai desideri terrestri, ma anche alle cupidigie celesti».

Solo quando l'uomo è veramente distaccato da se stesso può fare al prossimo un bene duraturo. Allora egli vede in ogni essere vivente il Dio sovrano, e come tale lo serve. Egli aspira alla salvazione di tutti e li aiuta a realizzarla.

«Quando un uomo spoglio di sé vive in mezzo a noi, i suoi atti diventano il palpito della virtù; tutto ciò che egli fa agli altri migliora persino i loro sogni più mediocri: tutto ciò che tocca diventa vero e puro; egli diviene il padre della realtà. E ciò che crea non scompare mai...

Dio è infinito e senza limiti; ecco perché la sua forza di creazione è senza limiti. Gli esseri che, rinunciando al loro piccolo io personale, si sono innalzati fino all'Io divino, sono i soli le cui opere non periranno mai».

Attraverso i corpi di simili uomini corrono slanci profondi di devozione. La vita umana diventa una perpetua adorazione.

Perciò «le due sole cose necessarie sono la fede e l'abbandono di sé».

Poiché Râmakrishna aveva predicato la rinuncia, i suoi discepoli pensarono di restare fedeli al suo spirito abbandonando il tempio nel quale egli aveva vissuto e che cadde in rovina.

Ma, sull'altra sponda del Gange, fondarono un importante monastero, del quale Dhan Gopâl Mukherjî ci lasciò una viva descrizione nel suo Volto del Silenzio:

«Una delle leggi che il Monastero ha eretto a principio è questa: Colui che pensa che Râmakrishna sia stato un santo è nella verità, così come colui che lo definisce un’Incarnazione di Dio».

Mukherjî, dopo un soggiorno nel monastero, confessa: «Sarò mai capace di descrivere anche soltanto una particella della gioia e della pace che mi avevano comunicato quei monaci in abito giallo?».

Questo monastero (detto math) non è l'unica fondazione della Missione Râmakrishna, che ha lo scopo di conservare lo spirito del santo. Questa Missione ha creato, al di fuori di ogni vita monastica, un gran numero di opere filantropiche, educative o missionarie (nel più ampio senso della parola).

Essa fondò ospedali ed asili. Il conte Keyserling (1880-1946), che ne visitò uno a Benares, scrive, nel suo Journal de voyage d'un philosophe (Parigi, Stock, 1928, I, p. 295) : «Non ho mai visto un ospedale dove regnasse umore così gioioso: la certezza della salvazione addolciva tutte le sofferenze, e l'amore del prossimo che animava gli infermieri era straordinario».

La Missione Râmakrishna ha rappresentanti in molte città dell'India e degli Stati Uniti, ed in altri paesi del mondo.

Lo spirito della Missione fu definito dal suo presidente, Swâmî Shivânanda, in una lettera rivolta allo scrittore Jean Herbert, autore di un'opera sul grande santo: (*) si tratta di «contribuire a far sì che i cristiani siano veri cristiani, gli indù veri indù, i maomettani veri maomettani, e i liberi pensatori siano pensatori veramente liberi».

(*) L'enseignement de Râmakrishna, cfr. la bibliografia sotto riportata.

Dal 1950 in Francia, il Centro Vedantico Râmakrishna ha la sede nel boulevard Victor Hugo, a Gretz (Seine-et-Marne).

Il suo rappresentante è lo Swâmî Siddheshwarânanda. Molti parigini ne conoscono il viso bruno, nobilitato dalla serena espressione, i grandi occhi scuri, il sorriso, il bell'abito giallo oro, il berretto quadrato dello stesso colore, i discorsi in uno straordinario francese, conclusi da una piccola preghiera, canterellata in una lingua indiana.

Siddheshwarânanda ha scritto: «La simpatia per tutti coloro che, in un modo o in un altro, conducono una vita spirituale, è il lascito che Râmakrishna fece al mondo moderno».

Félicien Challaye

da : Les philosophes de l’Inde, PUF, 1956, tr. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell’India, SAIE, Torino, 1959, capitolo XII.

Trascrizione elettronica e revisione di Dario Chioli